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L’Agroecologia contro la crescita delle megalopoli

L’Agroecologia contro la crescita delle megalopoli

Per comprendere le relazioni tra l’agricoltura e la nascita dei centri abitati bisogna partire dalla considerazione che la specie umana è sociale e gregaria e lo è da sempre: anche i cacciatori e raccoglitori, benché mobili sul territorio, agivano e vivevano in gruppi e non da solitari.
L’agricoltura è una delle più antiche attività umane, risalente a migliaia di anni fa. È stata una delle tappe fondamentali nello sviluppo delle società e delle aggregazioni umane, permettendo la transizione dalla vita nomade alla vita sedentaria. La storia dell’agricoltura può essere suddivisa in diverse fasi o periodi chiave, ciascuno caratterizzato da innovazioni e sviluppi significativi.
– Rivoluzione neolitica (circa 10.000-4.000 a.C.): Questo periodo segna una svolta importante nella storia dell’agricoltura, in quanto gli esseri umani passarono dalla caccia e dalla raccolta di cibo alla coltivazione di piante e all’allevamento di animali. L’agricoltura si sviluppò in diverse parti del mondo in modo indipendente, come nel Vicino Oriente, in Asia orientale, in Africa settentrionale e in America centrale.
– Antica Mesopotamia e Valle dell’Indo (circa 4.000-1.500 a.C.): Queste regioni furono tra le prime a sviluppare una forma organizzata di agricoltura su larga scala. I fiumi come il Tigri e l’Eufrate nella Mesopotamia e l’Indo (più lungo e importante fiume dell’attuale Pakistan) fornivano l’acqua necessaria all’irrigazione dei campi. Furono sviluppati sistemi di canalizzazione e di gestione delle acque per aumentare la produttività agricola.
– Antico Egitto (circa 3.200-30 a.C.): L’agricoltura in Egitto era strettamente legata al fiume Nilo. Ogni anno, durante la stagione delle piogge, il Nilo straripava, lasciando depositi di limo fertile sulle terre circostanti. Gli antichi egizi svilupparono sistemi di irrigazione sofisticati per distribuire l’acqua ai campi e utilizzarono attrezzi agricoli come l’aratro e il vomere.
– Rivoluzione agricola europea (dal XII al XVIII secolo): Questo periodo fu caratterizzato da una serie di innovazioni agricole in Europa. L’introduzione della rotazione delle colture, in cui i campi venivano coltivati in sequenza con colture diverse per evitare l’esaurimento del terreno, e l’adozione di nuovi attrezzi agricoli come la vanga e l’aratro pesante, migliorarono la produttività agricola.
– Rivoluzione verde (a partire dalla metà del XX secolo): La rivoluzione verde rappresenta una serie di innovazioni nel campo dell’agricoltura che hanno contribuito a incrementare la produzione alimentare a livello mondiale. L’introduzione di nuove varietà di colture ad alto rendimento, l’uso diffuso di fertilizzanti chimici, pesticidi e l’adozione di pratiche intensive di allevamento degli animali hanno contribuito ad aumentare la resa agricola, ma hanno anche sollevato preoccupazioni riguardo alla sostenibilità e all’impatto sull’ambiente.
Con l’evolversi dei sistemi agricoli, la crescita demografica e il sorgere di una più complessa organizzazione del lavoro e della società, si sono sviluppate le prime città. Tuttavia, negli scorsi millenni, il mondo è stato, essenzialmente, popolato da agricoltori, cacciatori, pescatori, strettamente legati alla terra, dispersi in piccoli aggregati sul territorio. Le società urbane avevano ruoli importanti, ma dimensioni ristrette. In epoca rinascimentale, nel Centro Nord dell’Italia, l’area più prospera d’Europa, solo dieci abitanti su cento vivevano in centri urbani con più di 10.000 abitanti, contro appena tre o quattro su cento in Francia, Germania e Inghilterra e uno su cento nelle aree periferiche del continente, a nord e a oriente.

Con la rivoluzione industriale l’urbanizzazione compie però un vigoroso salto in avanti; nelle città si accentrano le industrie e le attività terziarie; così, per fare un esempio, Londra raggiunge un milione di abitanti dopo il 1800, ed era allora la città più popolosa del mondo. Oggi le aree urbane con oltre un milione di abitanti sono più di 500, ed il complesso urbano più popoloso del mondo è quello di Tokyo con quasi 40 milioni di abitanti.
Il processo di urbanizzazione ha accelerato rapidamente il passo; nel 2013 le popolazioni urbane hanno superato quelle rurali, nel 2018 rappresentano il 55% del totale della popolazione mondiale, quasi il doppio del 1950.
Il legame tra agricoltura moderna e industrializzazione dei sistemi è perfettamente correlato all’espansione delle cosiddette megalopoli.
L’evolversi, spesso incontrollato o incontrollabile, delle situazioni e dei movimenti di spostamento verso determinate aree urbane con intensificazione della densità abitativa e di insediamenti produttivi e commerciali ha prodotto, specialmente a partire dalla seconda metà del Novecento, agglomerati estesissimi che sono stati chiamati megalopoli, termine usato da J. Gottmann per la prima volta nel 1961 per indicare tale fenomeno.
Nel 1950 le megalopoli, con oltre 10 milioni di abitanti erano solo 2 (New York e Tokyo), oggi sono 31 e le previsioni per i prossimi anni sono, a dir poco, catastrofiche, per le conseguenze che tutto ciò può comportare sui fabbisogni energetici e sugli squilibri sociali.
Infatti la crescita urbana continuerà a prodursi – sia pure con velocità via via minore – nei prossimi decenni. Secondo le stime delle Nazioni Unite alla data del 2030 vivrà nelle aree urbane il 60% della popolazione mondiale, che passerà da 4 a 5 miliardi, mentre quella rurale resterà pressoché invariata a 3,4 miliardi. Le città con oltre mezzo milione di abitanti che erano 1063 nel 2016 aumenteranno a 1393 nel 2030, e la loro incidenza sulla popolazione mondiale crescerà dal 27,7% al 33,3%. La popolazione urbana tende quindi a concentrarsi in plessi sempre più grandi: nel 2016 viveva in aggregati superiori ai 5 milioni di abitanti circa un quinto della popolazione urbana, nel 2030 quasi un quarto.

La crescita in numero e in dimensioni dei grandi aggregati urbani, particolarmente dinamica in Asia e in Africa genera, ovviamente, più di un motivo di preoccupazione. In questi aggregati vivono popolazioni con consumi superiori alla media, si producono più rifiuti e si emettono più gas serra, si consuma suolo con velocità doppia a quella della crescita della popolazione. Nei paesi meno sviluppati, quasi un terzo della popolazione vive in slum o in insediamenti informali, con servizi rudimentali, precario accesso a fonti idriche sicure, pessima igiene, soggetti a rischi ambientali, spesso senza titolo a stabile dimora e quindi a rischio di espulsione.
In teoria le aree urbane dovrebbero avvantaggiarsi delle economie di scala generate dalle loro dimensioni. La costruzione di strade, di reti di trasporto, di distribuzione di acqua e di energia, se ben pianificate sono in teoria relativamente meno costose, così come la erogazione di servizi di base per la salute e l’igiene.
Tuttavia è noto come la mancanza di un’adeguata pianificazione e di un efficiente governo e di speculazioni edilizie ha impedito quasi ovunque di godere di questi teorici benefici di scala.
Per questo motivo il rapido sviluppo della crescita smisurata dei grandi centri urbani, prevedibile per i prossimi decenni, minaccia quello “sviluppo sostenibile” che la comunità internazionale si è solennemente impegnata a perseguire.
In tale direzione l’avvento dei sistemi agroecologici può determinare una inversione di questa tendenza in quanto, per suo assunto, l’agroecologia coinvolge necessariamente non solo la riorganizzazione dei sistemi produttivi ma anche una diversa connessione tra questi ed i consumatori.
L’agroecologia è infatti, all’interno del più vasto scenario dell’economia circolare, quel modello produttivo ed economico ove la connessione tra i vari sistemi deve essere integrata e dove i flussi non sono lineari.
La biodiversificazione agricola cambierà, inoltre, anche l’interfaccia tra chi produce e chi consuma, seguendo perfettamente gli obiettivi della Strategia Farm to Fork dell’UE. In tale direzione lo scenario dei mercati tradizionali, sviluppatosi ed evolutosi con l’avvento dell’agricoltura specializzata, cambierà rapidamente richiedendo un rapporto più stretto, anche in termini di distanza, tra chi produce e chi consuma ma anche in termini qualitativi, dovendo dedicare una maggiore attenzione alle esigenze individuali.
Si prefigura, pertanto, un sistema di reti di mercato basati su nuovi approcci tra cui emergono, tra gli altri, i gruppi di acquisto solidali, meglio conosciuti con l’acronimo GAS, le reti a chilometro zero, ed altre esperienze tendenti a ravvicinare e raccordare tra loro produzione e consumo.
Queste nuove esperienze nascono soprattutto come necessità di cambiamento di uno stile di vita in cui il sistema economico, fondato sull’economia di mercato capitalistico, non garantisce la soddisfazione dei propri bisogni su un piano di parità, universalità, eguaglianza di tutti i cittadini, generando al contempo tutti i guasti predetti.
Si tratta di esperienze che oltrepassano la sfera dell’economia per entrare a far parte nel campo, oltre che dell’etica, anche della salute e della politica, intesa quest’ultima, non quella che doveva o dovrebbe intervenire per correggere e regolare il mercato, che non sempre è l’ottimo razionalizzatore, poiché spesso dall’incontro tra domanda e offerta s’innescano attriti che creano sprechi e danni sociali; ma un nuovo modo di fare politica che, attraverso una riflessione forte sul consumo critico, una parte di società civile pretende di portare direttamente dentro il mercato.
Il concetto che sta alla base dei GAS è quello della “filiera corta”, in altre parole l’avvicinamento fra produttore e consumatore finale, sia in termini geografici, preferendo le aziende più vicine al luogo in cui si è formato il gruppo, sia in termini “funzionali”, tagliando gli intermediari quali grossisti e negozianti, in particolar modo gli ipermercati. Nel caso dei GAS la filiera è la più corta possibile, infatti, i consumatori si rivolgono direttamente ai produttori. La selezione dei prodotti e dei produttori da parte degli aderenti ai GAS avviene attraverso i criteri del cosiddetto “consumo critico”, poiché le persone scelgono i prodotti che possiedono determinati requisiti perseguendo l’obiettivo di acquistare prodotti rispettosi dell’ambiente e delle persone.
Tali nuovi sistemi si allacciano perfettamente alla realizzazione di città e territori circolari, fortemente connesse a tematiche quali sviluppo sostenibile, resilienza e cambiamenti climatici. Attualmente non esiste una definizione chiara e condivisa di cosa costituisca una città o un territorio circolare. Nella letteratura scientifica molto spesso la città circolare è vista come un contesto in grado di mettere in pratica i principi dell’economia circolare, tentando di chiudere i cicli delle risorse che utilizza, oltre che realizzare engagement sociale con i suoi stakeholder (cittadini, comunità, imprese, amministratori e stakeholder della conoscenza). La Ellen Mac Arthur Foundation afferma che una città circolare incorpora i principi dell’economia circolare in tutte le sue funzioni, stabilendo un sistema urbano che è rigenerativo per definizione.
A prescindere dalle diverse definizioni presenti, in generale le città e i territori vengono definiti circolari per sottolineare l’innovativo modo di vedere, ponderare e soprattutto gestire le attività economiche e non, che hanno luogo nel territorio della città. Negli ultimi anni, numerose sono le città che hanno proposto strategie e intrapreso percorsi verso la circolarità come Rotterdam, Parigi, Londra, Madrid e altre.
In ogni caso la connessione dei sistemi e il cambio degli stili di vita comporterà necessariamente una ricomposizione del tessuto urbanistico che, per certi versi, l’economia lineare ha condotto verso un punto di non ritorno.
Basti pensare che in Italia la periferia è sempre più spopolata (negli ultimi 25 anni una persona su sette se n’è andata), con quasi due milioni di case vuote (una ogni tre non è occupata) e abitanti sempre più anziani (due per ogni giovane). È la fotografia dei piccoli Comuni italiani che emerge da un recente studio realizzato da Cresme per Legambiente e Anci sui comuni al di sotto dei 5.000 abitanti.
Un’Italia piccola ma dall’anima profonda che va dalle Alpi agli Appennini per arrivare alle isole minori; 5.627 piccoli centri che coprono il 69,9% del totale dei comuni del Belpaese (8.047). Di questi, secondo lo studio, sono quasi la metà (2.430) quelli che soffrono un forte disagio demografico ed economico, piccoli borghi che occupano il 29,7% della superficie territoriale nazionale, oltre 89mila kmq, una densità abitativa che non raggiunge i 36 abitanti per kmq; quasi 13 volte meno rispetto ai comuni sopra i 5mila abitanti.
In particolare negli ultimi 25 anni (dal 1991 al 2015) in questi territori si è registrato un calo della popolazione attiva (675mila abitanti in meno, cioè il -6,3% nei comuni sotto i 5000 abitanti), una persona su sette se ne è andata, un aumento di quella anziana (gli ultra 65enni a fronte dei giovani fino ai 14 anni sono aumentati dell’83%), con oltre 2 anziani per un giovane. Le case vuote sono 1.991.557 contro le 4.345.843 occupate: una ogni tre è vuota.
Per ovviare a questo disastro sociale e, conseguentemente ecologico ed ambientale, bisogna invertire una logica politica che ha visto nella economia lineare e nell’accentramento dei poteri e delle decisioni una patologia senza possibilità di alcuna cura.
A tutto ciò l’unico rimedio è quello di ripensare ad un rapporto tra l’uomo e la natura, a differenti legami tra ecologia sociale ed ecologia, ed in cui l’agroecologia è l’unica soluzione, all’interno dell’economia circolare, per curare quella che le Nazioni Unite definiscono come Crisi Umanitaria.

Guido Bissanti




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