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Il seme dei nostri padri

Il seme dei nostri padri

Il seme ha rappresentato da sempre uno dei simboli più forti nella conoscenza e comprensione umana.
Al seme sono stati abbinati simboli, tradizioni, feste, cultura.
Per comprendere il mondo dei simboli bisogna capire proprio che cos’è un seme.
Per la biologia il seme è l’organo di diffusione delle spermatofite a cui è affidata la disseminazione delle piante. Deriva dalla trasformazione di un ovulo dopo la fecondazione. In genere si sviluppa sulla pianta madre e se ne distacca dopo la maturazione.
I semi contengono in essi, attraverso la complessa scrittura ed unione di due DNA genitori: informazione, storia, evoluzione, esperienza …
Portano dentro sé stessi un passato che si è “sacrificato” per produrre un futuro migliore, figlio di errori ma anche di esperienze ed insegnamenti.
I saggi del passato avevano constatato che dappertutto, nella natura come nell’anima, si sviluppano gli stessi processi, così anche loro hanno appreso a condensare un intero albero in un seme. Il seme è un simbolo. L’iniziato lo semina nella propria mente, lo annaffia spesso, e quando l’albero appare, egli lavora e si rallegra alla sua ombra… Poi raccoglie i semi e tutto inizia di nuovo… La vita è più comprensibile con dei simboli e si manifesta attraverso di essi.
Come non citare un passo del Vangelo di Giovanni: “… In verità, in verità vi dico: se il chicco di grano caduto in terra non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto. …”.
Ritornando alla cultura più strettamente contadina, il seme, più che una nuova pianta, è il frutto di un lungo processo di adattamento, di lavoro, di fatica, di esperienze, di conoscenze e di condivisione.
Nei semi tutto questo è stato sempre trascritto in un “software” ad alta complessità dove non solo venivano immagazzinate informazioni utili alla nuova pianta ma anche l’energia necessaria per poterla fare germinare e la materia necessaria per dare il là alla nuova vita.
Informazione, energia e materia: questa forma trinitaria della realtà che ci circonda e di cui siamo fatti. Quelle tre forme su cui la meccanica quantistica si riappacifica con molte delle culture religiose, anche al di fuori di quella cristiana.
Per esempio, nell’Induismo, c’è una nozione di tre forme di Dio chiamata Trimurti. La dottrina della Trinità si riferisce alla comprensione indù del Brahman supremo come “Sat-Cit-Ananda”, che sta per assoluta verità, coscienza e beatitudine.
Gli studiosi hanno notato, inoltre, che la credenza nella trinità divina risale a molte religioni del mondo antico, come ad esempio:
– la Sumeria, con le tre regioni dell’universo;
– la Babilonese, con un dio composito con tre teste;
– l’Induismo, con le tre divinità: Brahma, Shiva e Vishnu;
– la Greca, dove secondo Aristotele: “… ogni cosa e tutte le cose sono delimitate da tre, poiché la fine, il mezzo e l’inizio hanno questo numero in ogni cosa”;
– l’Egiziana, con le tre divinità: Amun, Re e Ptah.
– il Paganesimo, con la Tripla Dea che si riferisce alla fanciulla, alla madre e alla cuna.
Ritornando sul piano strettamente scientifico, l’aspetto trino che caratterizza l’essere vivente è stato stupendamente scolpito nella storia da Albert Einstein con la famosa formula E = m c2, molto tempo prima che vi si addentrasse, con nuove sfumature, la meccanica quantistica.
Da questa mirabile sintesi trina si deduce che Energia, Materia ed Informazione, che sono la traslitterazione analogica della formula di Einstein, sono principi strettamente interconnessi a tal punto da essere considerati un unico principio all’interno del quale le tre espressioni di base si tramutano una nell’altra, tanto che si può affermare che la Materia è Energia coagulata, l’Informazione è Energia allo stato potenziale, proprio come l’Energia è Informazione in atto. Tutto ciò fluttua con un proprio ritmo dando vita alla vasta fenomenologia vitale della Natura e del Creato in toto.
In assoluto, c’è da intendere che ogni ente di Natura è essenzialmente unico e allo stesso tempo trino nei suoi Principi costitutivi e la parte più sottile che lo anima, è insita nella “vacuità” (termine di derivazione orientale che sottende uno stato potenziale senza Forma da cui origina ogni Forma) stessa della materia, organica o inorganica che sia.
Quindi, scientificamente parlando, lo studio del fenomeno vitale che caratterizza tanto la materia quanto l’uomo, dovrebbe puntare anche sulle forze di natura fisica che intervengono nell’organizzazione spaziale delle particelle subatomiche piuttosto che accanirsi sull’analisi degli elementi chimici finiti.
Per questo motivo il seme è per la natura non tanto la fine di un ciclo ma l’inizio di uno nuovo, ma tra i due cicli non c’è una inutile ripetizione ma una accumulazione di sapere e conoscenza, per una organizzazione futura migliore e più condivisa.
Questo tema tanto caro alle culture, soprattutto orientali, è stato per millenni il “mantra” dei contadini, che con la loro osservazione, esperienza, lungimiranza, avevano imparato ad osservare sia la pianta che il seme, permettendo alla loro esperienza di contribuire a diffondere la grande enciclopedia che i semi conducevano.
Così l’agricoltura era l’alveo dove la natura fluiva, accumulando su sé stessa la potenziale informazione contenuta nella materia e nell’energia che la costituisce. I contadini selezionavano i semi più idonei, li riproducevano, li condividevano, spartendo con altri il grande testo di un DNA “esperenziale”.

Lo scambio dei semi

Tuttavia, dopo la metà del secolo scorso, l’uomo ha deciso che era possibile una via alternativa a questo processo, come se millenni di storia potessero essere annullati e con loro tutte le informazioni, le energie e le materie accumulate. Ma soprattutto non comprendendo il vero senso dello scorrere del tempo e la sua funzione nella gestione evolutiva della materia.
Nacquero così le varietà ibride. Varietà ibride non “esperenziali”.
Ovviamente l’ibridazione succede anche in natura, grazie al lavoro incessante delle api, di altri insetti e animali o del vento. Il polline di una pianta ne feconda un’altra, di differente varietà, il risultato è una varietà nuova. Anche l’uomo ha creato incroci fin dai tempi antichi, selezionando le varietà più produttive e sperimentando ibridi alla ricerca delle cultivar migliori.
Ma l’uomo è andato oltre, ha inventato (e brevettato) gli ibridi F1, cioè ibridi di prima generazione, ottenuti tramite un lungo lavoro di selezione genetica per ottenere frutti che abbiano certe caratteristiche desiderate.
Chiariamo meglio la logica di questo processo.
Se si vuole avere piante con una determinata caratteristica (se ad esempio vogliamo peperoni che facciano frutti di forma regolare) occorre selezionare le varietà con un processo chiamato segregazione. Questa operazione consiste nell’isolare gli esemplari che manifestano la caratteristica e riprodurli tra loro. Ripetendo più volte il passaggio si ottiene finalmente una cultivar che presenta il carattere desiderato. Ricorrendo alla fecondazione autogama (della pianta con sé stessa) o comunque continuando a incrociare un numero limitato di esemplari, si sviluppano però piante con un patrimonio genetico molto debole. In poche parole con una informazione blanda e non collegata a reali “esperienze” del DNA con la Natura.
Quando le caratteristiche desiderate sono due (se ad esempio desideriamo ottenere peperoni dalla forma regolare e che maturino tutti nello stesso periodo) bisogna procedere con due linee di segregazione separate: da una parte si isola la caratteristica della maturazione omogenea, con un’altra linea genetica si isolano le piante a frutto regolare. Incrociando il risultato di questi due processi di segregazione si ottiene la semente F1, una generazione di piante che presentano le due caratteristiche desiderate.
Succede, ovviamente (leggi della genetica) che solo la prima generazione di semi che risulta da questo processo si chiama F1 ed è quella che manifesta le peculiarità selezionate.
Le successive generazioni chiamate F2 e poi F3 avranno una genetica modificata, perché alcune caratteristiche latenti nel DNA delle piante F1 possono tornare a presentarsi. Spesso gli F1 sono sterili o producono generazioni F2 poco produttive, considerato che la fecondazione autotrofa praticata nelle generazioni precedenti comporta un grave indebolimento genetico. In ogni caso le piante F2 non avranno le caratteristiche per cui erano stati selezionati i semi F1.
Per questo motivo quando riproduciamo F1 ci svincoliamo dall’alveo della natura e ci sottoponiamo alla dipendenza dei brevetti (delle multinazionali).
Per non parlare degli OGM o dei New Genomic Techniques (NGT), rami avulsi di una storia mai posseduta.
Le due cose ci disancorano dalla mutua collaborazione con le tre forme della Natura, appunto: Informazione, Energia e Materia, che devono sempre mutuarsi l’una con l’altra in un continuo divenire e progredire.
Per dirla come il re filosofo Marco Aurelio: l’universo è cambiamento, la nostra vita è conseguenza dei nostri Pensieri.
La Storia, anche quella dell’agricoltura, come quella della più vasta Natura, ha bisogno di accumulare esperienze (che altro non sono che il continuo interscambio tra informazioni, energie e materia).
Senza ritornare dentro i grandi simbolismi della tradizione e delle culture religiose del passato (basti pensare alla dea Demetra, artefice del ciclo delle stagioni, della vita e della morte, protettrice del raccolto e delle leggi sacre), è evidente che non c’è futuro senza storia passata.
Non ci può essere progresso senza l’accumulo delle esperienze passate; non ci può essere pianta senza il seme che la informa di nuove necessità.
Insomma, al di là del significato profondo e religioso della frase: … “se il chicco di grano caduto in terra non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto” … è evidente che nulla, nemmeno la genetica e le scienze agronomiche possono sganciarsi dalle logiche della sostanza di cui siamo fatti e che pervade l’intera realtà.
La ricerca, la voglia di vivere e di rinascere continuamente, con energie e forme nuove, è nelle parole di questi bellissimi versi di Fernando António Nogueira Pessoa (Lisbona, 13 giugno 1888 – Lisbona, 30 novembre 1935), poeta e scrittore portoghese:
Il mio sguardo è nitido come un girasole.
Ho l’abitudine di camminare per le strade
guardando a destra e a sinistra
e talvolta guardando dietro di me…
E ciò che vedo a ogni momento
è ciò che non avevo mai visto prima,
e so accorgermene molto bene.
So avere lo stupore essenziale
che avrebbe un bambino se, nel nascere,
si accorgesse che è nato davvero…
Mi sento nascere a ogni momento
per l’eterna novità del Mondo…
In tutto questo la Scienza, la Tecnica, l’Umanità intera, devono recuperare quel corso, quell’alveo della Natura, al di fuori del quale, non scorre nessuna acqua e, con essa, nessuna fertilità di Vita.

Guido Bissanti




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