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Alla biodiversità agricola ne mancano tre su quattro

Alla biodiversità agricola ne mancano tre su quattro

La biodiversità rappresenta per l’ambiente naturale ed agrario la migliore risposta agli stress climatici, alla siccità, alla nutrizione della fauna e all’alimentazione umana.
Con la perdita di biodiversità, al di là della funzione energetica ed ecologica, si hanno ricadute di ordine sociale e culturale in quanto la diversità alimentare consente una migliore dieta e sostiene conoscenze e tradizioni.
Basti pensare che i nostri giovani agricoltori, in gran parte, non conoscono molte delle specie e razze che venivano coltivate ed allevate dai nostri antenati e, di fatto, alcune non le consoceranno mai se non in qualche antica pubblicazione.
Questo perché la perdita del patrimonio alimentare, culturale e ambientale ha ridotto all’osso le specie presenti sul territorio italiano, e quelle superstiti sono per la maggior parte in pericolo.
I dati sulla biodiversità agricola italiana, di recente aggiornamento, ci dicono che, mediamente, su quattro specie vegetali coltivate nel secolo scorso ne mancano all’appello tre.
Una perdita di biodiversità che rappresenta un fenomeno molto grave dal punto di vista ambientale, che non riguarda, quindi, solo i paesi lontani, ma ormai ci interessa da vicino, potendo destabilizzare il delicato sistema agroalimentare (e politico) italiano oltre che i sistemi di coltivazioni del nostro paese.
Questi dati sono emersi nel recente Food Systems Summit della FAO, che si è svolto dal 24 al 26 luglio presso la FAO.
Tra i dati emersi risalta che, negli ultimi cento anni, la perdita di biodiversità ha colpito il sistema agricolo e zootecnico italiano quasi in maniera irreversibile.
Durante il summit il segretario generale delle Nazioni Unite, António Manuel de Oliveira Guterres, ha affermato che “Il diritto al cibo è un diritto umano fondamentale. Il Food Systems Summit che si svolse due anni fa mise in luce un fatto che non possiamo negare: i sistemi alimentari globali si sono infranti e milioni di persone ne stanno pagando il prezzo. Il paradosso è che si muore di fame mentre tonnellate di cibo sono sprecate, si muore perché si mangia troppo o troppo poco …”.
Secondo i numeri riportati da alcune organizzazioni del settore agricolo lungo in tutta la penisola italiana c’erano nel secolo scorso 8.000 varietà di frutti che oggi sono ridotti a poco meno di 2.000. Di questi “superstiti”, 1.500 specie sono considerate in pericolo.
Così la perdita della biodiversità agricola, frutto di millenarie esperienze delle culture contadine, sta trascinando in basso, oseremmo dire “saperi e sapori”.
Stiamo perdendo il patrimonio alimentare, con una diminuzione delle informazioni che questo apportava al nostro organismo (con tutte le conseguenti malattie e patologie) e stiamo perdendo quella ricchezza che scaturiva da un sapere millenario tramandato in tutte le tradizioni locali.
Una catastrofe senza precedenti contro cui, ovviamente, non possiamo piangerci addosso ma dobbiamo operare i dovuti correttivi.
Purtroppo una cattiva informazione, interessi di multinazionali del settore e carenza di coscienza hanno indotto un pericoloso vortice.

La produzione di cibo a basso costo e l’agricoltura intensiva sono le principali cause della perdita di biodiversità. Negli ultimi decenni questa perdita, assieme al tasso di estinzione delle specie, è cresciuta come mai prima d’ora.
A supporto di quanto emerso dal summit FAO del giugno 2023 fa da eco, infatti, il rapporto “Food system impacts on biodiversity loss”, pubblicato il 3 febbraio dal centro studi britannico Chatham House con la collaborazione del Programma delle Nazioni unite per l’Ambiente (Unep) e Compassion in world farming, una delle più grandi organizzazioni internazionali per il benessere animale.
L’attuale sistema di distribuzione commerciale che privilegia le grandi quantità di poche varietà certamente non gioca a favore della biodiversità. Del resto la standardizzazione dell’offerta è quotidianamente sotto i nostri occhi; basti pensare che quando si fa la spesa nei supermercati non solo troviamo poche specie di frutta o verdura ma non esistono quasi più le varietà di queste e, soprattutto, se ne è persa la conoscenza. Se dovessimo chiedere ad un giovane agricoltore o consumatore una serie di varietà di frutti che i nostri antenati coltivavano la risposta potrebbe essere molto imbarazzante.
Purtroppo le poche varietà attuali sono state selezionate perché più facili da conservare, più grosse e colorate: in una parola perché sono più attraenti e il consumatore le preferisce, ma non sono né le migliori né le più resistenti; sono solo più belle da vedere e rappresentano quella vacuità di forma tanto cara alla nostra attuale civiltà.
Ci troviamo di fronte alla perdita di un patrimonio alimentare ma soprattutto culturale: i frutti parlano del territorio e di chi lo coltiva; la biodiversità è preziosa per la conservazione dell’ambiente. In queste condizioni, con i cambiamenti climatici in atto che mutano lo scenario a cui siamo abituati, il rischio di estinzione di altre specie è più di una ipotesi.
È per questo che non c’è molto tempo da perdere.
A quanti ancora resistono all’idea della necessità di una transizione agroecologica, come se fosse una cosa romantica o legata a piccole produzioni familiari, bisogna rispondere con fatti, non certamente di tipo scientifico (quelli sono ben saldi, anche se poco divulgati) nei testi di agroecologia.
È necessario investire in conoscenza di queste specie (quelle almeno rimaste), nelle tecniche di coltivazione, consociazione, moltiplicazione, ecc.
Bisogna tornare nei campi; bisogna scendere dalle torri d’avorio di una certa ricerca che, dalla seconda metà del secolo scorso si è arroccata dietro le cattedre non dialogando più, né con gli agricoltori né con i futuri dottori agronomi né, tanto meno, con i cittadini.
Ovviamente esistono virtuose eccezioni (generalizzare è uno degli sport troppo facili) ma sono troppo isolate e rischiano di non implementare percorsi virtuosi.
Bisogna lavorare anche per la multifunzionalità delle aziende agricole per aprire uno spiraglio ai piccoli agricoltori e allevatori – che hanno la voglia e l’interesse di recuperare le vecchie specie per migliorare la qualità e la varietà dell’offerta – per i quali si sono delineati nuovi canali di mercato grazie alla vendita diretta ai consumatori, i Gruppi di Acquisto Solidale ed altri sistemi a distribuzione, per citare la strategia europea, del tipo Farm to Fork.
Bisogna sensibilizzare non solo agricoltori, tecnici e ricercatori, oltre che cittadini ma anche una classe politica troppo distante da questi concetti e troppo mal informata da sistemi divulgativi ed interessi molto lontani da questo sapere. Di quel sapere che solo la natura può dare e che stiamo rischiando di perdere man mano che ci allontaniamo da essa.

Guido Bissanti




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