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Alimentazione del futuro – insetti o piante?

Alimentazione del futuro – insetti o piante?

Di fronte all’aumento della popolazione mondiale si pone sempre più la domanda di come poterla sfamare negli anni a venire.
Per rispondere a questa domanda però, come al solito, non possiamo fare delle considerazioni semplicistiche (per intenderci alla maniera dei tweet o dei post di Facebook) in quanto si tratta di una materia complessa che ha bisogno di una serie di dati, informazioni e, quindi, considerazioni.
In questo contributo, pur con la necessità di operare una sintesi, idonea ad un articolo divulgativo, affronteremo l’intera questione.
Partiamo dalle stime della popolazione da oggi al 2100.
Le Nazioni Unite, già nel 2019, hanno previsto che la crescita demografica sarebbe continuata ancora, portando la popolazione dagli attuali 7,7 miliardi di persone a circa 11 miliardi entro il 2100. Nel 2014 era stata pubblicata un’altra previsione, condotta dagli scienziati dello Iiasa (International Institute for Applied System Analysis), secondo la quale la popolazione mondiale raggiungerà un picco di 9,4 miliardi di persone intorno al 2070 e scenderà a 9 miliardi entro la fine del secolo.
Per completezza di informazione (e di ipotesi) un altro report successivo, pubblicato dallo stesso gruppo nel 2018, ha corretto le proiezioni a un picco di 9,8 miliardi intorno al 2080, e un ulteriore aggiornamento ha stimato una popolazione di 9,7 miliardi di persone nel 2070.
Un altro articolo, pubblicato nel 2020 dagli esperti dello Ihme (Institute for Health Metrics and Evaluation), ha stimato il picco a 9,7 miliardi di persone nel 2064, seguito da un declino a circa 8,8 miliardi entro il 2100. Secondo questo lavoro diverse Nazioni, tra cui Italia, Giappone, Thailandia e Spagna vedranno la propria popolazione dimezzarsi entro la fine del secolo.
Bene, questi scenari, pur con le dovute divergenze, conducono comunque a dei dati in cui si ipotizzano dei massimi dopo la metà del secolo ed un decremento entro fine dello stesso.
A questo punto la prima considerazione da fare è se il nostro pianeta abbia terre coltivabili sufficienti a nutrire (nell’ipotesi peggiore) 11 miliardi di persone.
Per trarre dei dati utili bisogna partire dalla SAU (Superficie Agricola Utilizzata) a livello planetario; tralasciando qui la SAT (Superficie Agricola Totale) che, per ipotesi restrittiva non andiamo a modificare.
Secondo gli ultimi rapporti ONU, rapportata al totale della superficie delle terre emerse (circa 15 miliardi di ettari), la SAU rappresenta circa un terzo del totale, ovvero pressappoco 5 miliardi di ettari, di cui:
– 3.4 miliardi di ettari destinati a pascolo (compresi gli alpeggi);
– 1.4 miliardi di ettari di terre arabili;
– 140 milioni di ettari di coltivazioni permanenti (frutteti, palmizi, vigneti, coltivazioni di tè o di caffè).
Negli ultimi decenni, malgrado il dissodamento e la messa a coltura di vaste aree forestali in Brasile, in Africa e in Indonesia (tra i 12 e i 13 milioni di Ha all’anno), la superficie delle terre arabili è rimasta pressoché costante, a partire dagli anni Settanta del Novecento, a causa delle perdite che avvengono per salinizzazione delle aree irrigate, impoverimento e perdita di suolo agrario e l’avanzare dell’urbanizzazione.
Per comprendere quindi se la SAU sia sufficiente ad assicurare cibo (in maniera sostenibile) all’intera popolazione mondiale bisogna fare dei calcoli complessi (che qui vi risparmio) che devono essere basati tuttavia su una serie di parametri:
– Fabbisogno nutritivo medio per ogni persona;
– Rese medie delle terre coltivabili;
– Disponibilità idrica;
– Disponibilità di fertilizzanti;
– Disponibilità energetiche per la produzione agricola;
– Ecc..
Elaborando tutti questi dati oltre la metà delle stime, tuttavia, ricade tra i 4 e i 16 miliardi di abitanti, e alcune stime vanno ben oltre i 16 miliardi di persone.
La differenza tra le stime è molto subordinata, ovviamente, ai modelli di sviluppo adottati ed agli stili di vita di alcuni Paesi.
Quelle che propongono scenari basati sugli attuali stili di vita dei Paesi occidentali (come Stati Uniti, Europa, Giappone, ecc.) si attestano molto in basso; quelle basate su differenti stili di vita (il che non equivale a criteri di povertà) si attestano molto più in alto.
Diciamo subito che, la capacità alimentare del pianeta va molto oltre gli 11 miliardi di persone e si attesta sui 30 miliardi di persone (vedi calcolo). Ovviamente questo dato cambia notevolmente se il metodo di produzione è del tipo intensivo (uso massiccio di fertilizzanti, acqua, energie, ecc.) o del tipo estensivo. Ma gli scenari (vedi Entropia di Jeremy Rifkin del 1980) ci dicono (e qua entrano in gioco complessi calcoli termodinamici) che più spingiamo sull’incremento delle rese unitarie (agricoltura intensiva) più perdiamo in rendimento generale del sistema. È come quando spingiamo una vettura oltre un certo regime e se anche aumentiamo la velocità i consumi peggiorano in maniera esponenziale (curva dei rendimenti).
Questo prima dato ci dice, intanto, che concordemente a quanto affermato dalla FAO negli ultimi tempi, che il cibo può essere assicurato a tutti a condizioni che venga cambiato il metodo per produrlo.
Monocolture, specializzazioni, uso di fertilizzanti indiscriminato, sprechi idrici, distribuzioni alimentari su lunghe distanze, ecc. sono dei criteri energeticamente (oltre che scientificamente e quindi tecnicamente) obsoleti e frutto di esigenze mercantilistiche e commerciali.
Bisogna passare dall’agricoltura basata sulle rese elevate a quella sui rendimenti elevati.
In poche parole bisogna passare dall’agricoltura post rivoluzione verde (per intenderci gran arte di quella messa in piedi col Mercato Comune dopo il Trattato di Roma del 1958) all’Agroecologia (quella prospettata col Farm to Fork del 2020 e già recepita in Sicilia con la L.R. 21/2021).
Tra i due modelli esiste un abisso, non solo dal punto di vista concettuale ma, ovviamente, anche dal punto di vista scientifico e quindi tecnico e tecnologico e, non ultimo, sociale.

Si tratta di una conversione che richiede una nuova coscienza, nuove conoscenze, nuova formazione e divulgazione e nuovi modelli organizzativi in quanto l’agroecologia non è solo un differente modo di produrre ma anche un diverso modo di rapportarsi con i fruitori finali.
Questa conversione non riguarda quindi solo gli agricoltori ma tutti: politici, ricercatori, tecnici, semplici cittadini.
Intanto partiamo dalla considerazione che attuando, soprattutto nell’ultimo mezzo secolo, l’agricoltura cosiddetta convenzionale abbiamo progressivamente abbandonato gran parte delle specie vegetali commestibili.
Si è passati da una grande biodiversità agricola (tralasciando quella di ordine naturale) ad una bassissima e pericolosissima biodiversità aziendale, con conseguenti feedback ecologici negativi, come l’incremento di alcune specie di insetti e la scomparsa di altri o la diminuzione della fauna e di altre specie che comunque svolgono un ruolo ecologico (e quindi produttivo) fondamentale.
Quella più nota tra queste (ma non in assoluto la più importante) è la perdita di produzione per la diminuita impollinazione dei pronubi.
Oggi nel mondo esistono circa 30.000 specie commestibili di piante terrestri (tralasciando le alghe) e di queste, con l’avvento dei sistemi produttivi convenzionali e specializzati, si è passati solo a 200 piante coltivate su scala significativa. Di queste 200 soltanto 8 forniscono oltre il 50% delle nostre calorie giornaliere: orzo, fagioli, arachidi, mais, patate, riso, sorgo e grano.
Su gran parte del globo, poi, si è gradualmente abbandonato l’apporto delle specie spontanee (le cosiddette alimurgiche ed altre) che svolgevano un importantissimo contributo sia in termini alimentari che di biodiversità e, quindi, di servizi ecologici.
La storia ci dice infatti che sin dai primordi l’umanità ha fondato la propria alimentazione sulla raccolta di piante commestibili, quali radici, erbe, foglie e frutti e che queste, fino agli inizi del secolo scorso assicuravano un importante ruolo ecologico e sociale. Poi di punto in bianco l’abbandono più totale e, purtroppo, la perdita di conoscenza sul loro uso, sul loro ruolo, sul loro riconoscimento, ecc..
In termini ecologici ed alimentari le cosiddette specie spontanee assicurano numeri tutt’altro che trascurabili sia in termini di produttività diretta che indiretta.
Inoltre, dobbiamo usare la biodiversità in modo sostenibile, in modo da poter rispondere meglio alle crescenti sfide del cambiamento climatico e produrre cibo senza danneggiare il nostro ambiente. Affermazioni fatte non dal solito ignoto di Twitter o Facebook ma, prima dall’ex. Direttore della FAO, José Graziano da Silva, nel 2018, e poi da QU Dongyu, attuale direttore della FAO, nel 2021.
La stessa FAO, in un recente rapporto, indica in almeno 6000 il numero delle piante che si possono recuperare e coltivare a fini alimentari, innescando un processo di biodiversificazione agricola ed alimentare che porterebbe con se incredibili benefici anche di ordine produttivo.
Tra l’altro è a tutti noto come le piante – cereali, frutta, legumi e verdura – compongono, in media, oltre l’80% della dieta umana.
Di fronte ad una incredibile biodiversità a disposizione per l’alimentazione umana (biodiversità dimenticata oserei dire) si sente parlare poi sempre più della necessità di dover sopperire alla fame nel mondo producendo insetti.
Qui siamo addirittura nel grottesco e voglio smontare, se possibile una volta per tutte, questa assurdità di ordine scientifico oltre che concettuale.
Gli insetti, al di la poi delle abitudini alimentari di alcuni popoli che li utilizzano da secoli un po’ col criterio delle piante alimurgiche (raccogliendoli o recuperandoli in natura), sono degli esseri viventi che, al pari dei fratelli maggiori (bovini, ovini, ecc.) vanno alimentati per poterli produrre.
Gli insetti, pertanto, devono essere nutriti; sono dei mini allevamenti zootecnici. Ricordiamo che sono degli organismi eterotrofi, che devono quindi trasformare specie autotrofe come le piante (insetti fitofagi) o addirittura altri organismi eterotrofi (insetti zoofagi).
Ora è a tutti nota la questione sul basso rendimento energetico per la produzione della carne nell’alimentazione umana. Un bovino per poter essere “ingrassato” richiede tante energie che sono state accumulate primariamente dagli eterotrofi (vegetali) e trasformate in proteine vegetali. Questo processo come tutti i calcoli sui rendimenti (che vi risparmio pure) ha una resa molto bassa, che equivale a dire che nutrirsi di carne (per lo meno con animale provenienti da allevamenti intensivi) al di la della questione etica, è un non senso.
Anche tale questione va affrontata con criteri scientifici validi in quanto è noto poi come la presenza della fauna negli ecosistemi sia naturali che agricoli (entro determinati rapporti di equilibrio) sia utile ad assicurare il corretto equilibrio ecologico ed un importante apporto di sostanza organica, fosfati, minerali, ecc.. Un’agricoltura senza animali è un’altra stortura tutta “moderna”. La natura ha le sue regole e non possiamo reinventarle noi.
Orbene, allevare insetti è la versione “zootecnia intensiva.2” con gli stessi identici difetti. Allevare insetti (e ve lo dice un entomologo che lo ha fatto sin dagli anni ’80, ma per fini di ricerca) richiede notevoli quantitativi di sostanze di varia natura: dai vegetali, alle sostanze zuccherine (di provenienza vegetale) ad altri prodotti e derivati.
In poche parole gli insetti, come tutti gli esseri eterotrofi, devono acquisire energia e composti chimici partendo da sostanze organiche elaborate da organismi autotrofi (vegetali) o provenienti da altri organismi eterotrofi.
In poche parole, per poter produrre insetti, dobbiamo attingere al serbatoio degli eterotrofi (piante) e non solo, ma con un rendimento di processo molto basso in quanto lo stesso ha bisogno, a sua volta, di alte aliquote di energie sotto forma di acqua, elettricità (per mantenere gli allevamenti), sostanze varie, ecc..
La soluzione insetti, come la soluzione zootecnia intensiva, è la peggiore che possiamo ipotizzare.
La domanda è: cui prodest?
La risposta è anche più facile del previsto: gli insetti (la loro produzione industriale) appartengono a quel mondo dell’accaparramento dei diritti a produrre che vede negli OGM, nella detenzione dei diritti sulle sementi, in alcuni criteri di certificazione dei processi, ecc. l’opportunità di traslare il diritto dei popoli di auto sostenersi con la loro cultura, con la loro conoscenza, con le loro tradizioni (tutti principi contenuti nel criterio della Sovranità Alimentare) e sul loro territorio, sostituendosi ad essi. Trasformando gli esseri umani in consumatori ed oggetti e non in protagonisti, con il loro corretto rapporto con la Natura, di cui sono una parte.
Siamo giunti in un tempo in cui le questioni possono essere risolte solo elevando la qualità del pensiero, secondo la via tracciata da Tommaso d’Aquino (Roccasecca, 1225 – Abbazia di Fossanova, 7 marzo 1274), seguendo una nuova predisposizione, in quanto : “Il sentire dell’uomo esige una mutazione non soltanto materiale, ma anche spirituale”.

Guido Bissanti




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