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Dalla Transizione alla Conversione Ecologica

Dalla Transizione alla Conversione Ecologica

Crisi climatica, economica, sociale; aumento delle diseguaglianze e diritti dei più deboli sempre meno tutelati.
E tra i più deboli non intendiamo solo una parte dell’umanità ma tutta quella natura (insetti, uccelli, mammiferi, ecc.) che viene annientata e mortificata, trascinando con se un pianeta, e quindi un’umanità, in una dimensione sempre più povera.
Produciamo cibo non tutelando la natura ma distribuendo su suolo, acqua e terreno, veleni, biocidi, sostanze che distruggono interi ecosistemi e sistemi invasivi, noncuranti di altri esseri viventi che dovrebbero avere i nostri stessi diritti.
Chiediamo parità di diritti e di genere ma questo non vale quando il salto è tra specie diverse. Chiediamo il diritto alla libertà ma ciò non include la libertà ed il diritto di esistere per altri esseri viventi.
Inneggiamo ad una società del benessere quando per assicurare questo benessere fatto di servizi, tecnologie, disponibilità di beni, ecc. intacchiamo le risorse di quei luoghi e di quei popoli che le detengono.
Di fronte a questo scenario, fatto di contraddizioni ed incongruenze, stiamo tentando di costruire un nuovo percorso che tenti di essere ecologicamente corretto utilizzando il termine di “Transizione Ecologica” ma si ha sempre più la sensazione che stiamo mettendo un vestito nuovo ad un corpo, oramai in putrefazione, che ne cela le sembianze ma non il cattivo e nauseabondo odore.
D’altronde il termine transizione proviene dal latino transitio -onis, che equivale a passare; passaggio da un modo di essere o di vita a un altro, da una condizione o situazione a una nuova e diversa.
Ma la transizione, come riporta in maniera lucida un articolo di Francesco Gesualdi (attivista e saggista italiano) sulla testata Avvenire, “evoca l’immagine della traversata, il passaggio da una sponda all’altra del fiume. Cambiamo sponda, ma il fiume rimane lo stesso: stessa acqua, stessa corrente, stessa fauna, stessa flora. Fuor di metafora la transizione ecologica cambia la nostra tecnologia, il nostro modo di produrre, perfino il nostro modo di consumare, ma lascia immutata la nostra gerarchia di valori, la nostra filosofia di vita, il nostro concetto di felicità, la nostra visione organizzativa del privato e del sociale. Invece è proprio una nuova impostazione culturale, che poi si fa impostazione economica, ciò di cui abbiamo bisogno. Detta in un altro modo, abbiamo bisogno di conversione ecologica, una sorta di cambio di stato che imprima tutt’altro movimento al nostro modo di concepire la vita e di organizzare la nostra esistenza. Finora abbiamo agito all’insegna della ricchezza e abbiamo prodotto instabilità umana e modificazioni climatiche.”
E allora dobbiamo iniziare a parlare di Conversione Ecologica, non tanto per riprendere i principi enunciati dalla Laudato Sì di Papa Francesco ma quanto per ribadire che questo mondo ha bisogno di una nuova conversione, più autentica, più alla luce di una comprensione nuova che la storia, con le sue emergenze e le sue crudità, ci ha però messo in luce.
Conversione viene infatti dal latino conversio, che equivale a “portarsi dall’uno all’altro luogo”, “volgersi verso qualcuno o qualche cosa” “cambiare direzione” o “strada”.
Non è quindi solo una questione tecnologica ma una visione differente del senso della Vita, non alla rincorsa del bene di pochi dominando i molti (esseri viventi tutti) ma contemplando il raggiungimento di un benessere comune, forse più sobrio, ma identico per tutti e quindi vero, a conferma che il degrado ambientale in cui siamo immersi ha l’aggravante dell’iniquità perché è stato provocato non per garantire la dignità a tutti, ma il privilegio a pochi.
Non è solo una questione di transizione ecologica, obiettivo necessario, ma non sufficiente, in quanto fino ad oggi abbiamo agito all’insegna della ricchezza e abbiamo prodotto instabilità umana, disuguaglianze sociali, degrado ambientale.
Dobbiamo uscire dalle logiche di un modello consumistico che vede nella produzione e nel mercato il dio minore a cui tutti devono piegarsi ed adattarsi.
Basti pensare che un tempo, quando lo sviluppo sembrava infinito, le disuguaglianze si misuravano solo in termini di reddito, oggi le disuguaglianze si misurano sempre di più in termini di impatto sulla natura, utilizzando i due indicatori di base: l’impronta ecologica e l’impronta di carbonio.

In ambedue i casi le statistiche rivelano ampie disuguaglianze fra nazioni e fra classi. Parlando di CO2, si va da 17 tonnellate pro capite all’anno, emesse negli Stati Uniti, a 0,53 nel Sudan, passando per 5,7 nel caso dell’Italia. Ma le medie nascondono sempre profonde differenze. Nell’Unione Europea l’impronta media pro capite è di 6,5 tonnellate, ma quella dell’1% più ricco è undici volte più alta del 50% più povero. Disparità che ormai non riguardano più solo UE o Nord America, ma tutto il mondo perché quella dei super-ricchi è una classe transnazionale che travalica ogni frontiera.
In definitiva, il 10% più ricco della popolazione mondiale produce il 49% di tutta la CO2 emessa dai consumi mondiali, il 50% più povero solo il 7%. E oggi che la concentrazione di CO2 in atmosfera ha raggiunto 412 parti per milione, con profonde conseguenze sul clima e quindi sul livello dei mari, sulle rese agricole, sulla tenuta dei fiumi, sono i più poveri a pagarne le conseguenze. Non solo perché sono meno attrezzati ad affrontare le calamità, ma perché vedono sfumare per sempre la propria possibilità di riscatto. Non per partecipare al banchetto delle futilità, ma per godere almeno dell’essenziale.
Ma adesso si sta prospettando uno scenario più critico: per attuare la transizione ecologica, secondo il vecchio modello, bisogna fare perno su nuovi, e vecchi, materiali che andranno ulteriormente ad incidere non solo sui Paesi già notoriamente provati da questo modello di sfruttamento, che non è solo minerario; all’orizzonte, non tanto sfumato, si ha sempre più chiara l’idea che i costi di questa transizione sono tutt’altro che ecologici dovendo fare parecchio affidamento su risorse di tipo tradizionale (carbone, petrolio, ecc,) per attuarla.
I limiti che la strada della Transizione Ecologica rischia di incontrare è legata quindi anche ai minerali che le nuove tecnologie richiedono, specie per la mobilità elettrica. Rame, litio, cobalto, nichel sono metalli poco abbondanti, che oltre tutto richiedono molta energia e molta acqua per i processi di lavorazione.
Una chiara ammissione di scarsità che avvalora «la necessità di abbandonare un modello consumistico» non solo per esigenze di sostenibilità, ma soprattutto di equità.
Qui è in discussione una vecchia, e oramai logora, dottrina che garantendo l’attenzione solo sulla nostra parte di mondo ha fatto in modo di trattare la giustizia sociale come una mera questione interna alle nostre nazioni ricche, innescando una serie di feedback, tra i quali la grande emergenza della migrazione mondiale.
D’altronde se tutto il mondo dovesse consumare (cibo, energia, risorse, ecc.) come il 10 % ricco della popolazione mondiale non basterebbero due pianeti.
La questione non è che siamo destinati verso la povertà di tutti; dobbiamo comprendere che c’è posto per la dignità di ognuno ed il suo benessere (che non è solo economico e monetario) se cambiamo il paradigma sociale, e quindi economico, verso un modello sincrono alla Natura e sobrio come essa.
Così oggi che la crisi si è fatta evidente, dobbiamo scegliere che tipo di sostenibilità vogliamo perseguire: se quella dell’apartheid che destina le poche risorse esistenti al consumismo di pochi o quella dell’equità che privilegia i diritti per tutti.
Bisogna cambiare il rapporto tra utilizzo dei beni e umanità, a partire da un sistema agroalimentare discriminatorio (per l’umanità e per la natura) e iniquo (grandi sperperi e disponibilità e grandi carestie e povertà).
Bisogna rimodulare un mondo sempre più veloce e che fa dei grandi scambi e sempre su maggiori distanze il fondamento della produzione e del mercato.
Che tutto questo si faccia con energie rinnovabili o tradizionali, mantenendo questa impostazione, poco conterà: alla fine avremo un Pianeta più povero e pochi ricchi con grandi ricchezze inutili.
Per di più stiamo sottraendo beni alle generazioni del domani che hanno diritto anch’esse a trovare un pianeta ospitale. Diritto di cui potranno godere solo se noi, i loro antenati (poco padri e molto padroni), sapremo privilegiare la sobrietà rispetto allo spreco. Questa è la responsabilità che ci compete se vogliamo bene ai nostri figli.
Ed è per questo che, se vogliamo ritenerci veramente umani dobbiamo abbandonare un criterio di transizione che è un nuovo vestito su un corpo in putrefazione per vestire un abito più sobrio ma su un corpo che profumi di Vita.

Guido Bissanti




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