Isatis tinctoria
Isatis tinctoria
Il Guado (Isatis tinctoria L.) è una specie erbacea biennale appartenente alla famiglia delle Brassicaceae.
Sistematica –
Dal punto di vista sistematico appartiene al Dominio Eukaryota, Regno Plantae, Divisione Magnoliophyta, Classe Magnoliopsida, Ordine Capparales, Famiglia Brassicaceae e quindi al Genere Isatis ed alla Specie I. tinctoria.
Etimologia –
Il termine Isatis proviene da ἰσάτις isátis, nome classico greco del guado in Dioscoride e Ippocrate (da ἰσάζω isázo pareggiare, levigare): per le proprietà abrasive di alcune piante di questo genere.
L’epiteto specifico tinctoria viene da tíngo tingere: quindi utilizzata per tingere stoffe.
Distribuzione Geografica ed Habitat –
Il Guado è una pianta di origine asiatica che, quasi sicuramente, fu introdotta in Europa a partire dal neolitico.
Altri autori sostengono che sia stata importata in Italia dai Catari che si stabilirono nella zona del Piemonte corrispondente all’attuale città di Chieri.
Questa tesi sarebbe avvalorata dal fatto che nel triangolo tra Tolosa, Albi e Carcassonne, nel ducato di Lauraguais si era sviluppata la coltura dell’Isatis tinctoria, da cui si ricavava il “blu pastello”, estremamente ricercato nella pittura e nell’industria tessile; tale attività diede particolare prosperità a queste zone, originariamente povere, tanto che da allora sono passate a essere definite il “paese di Cuccagna” (da cocagne, il nome francese dato al panetto di tintura blu come era commercializzato).
La sua diffusione italiana è nelle aree delle Alpi Occidentali e Marittime (Valle d’Aosta, Piemonte e Liguria), nel Veneto, anche se limitatamente alla zona della provincia di Treviso, in alcune regioni del centro-nord come Toscana, Umbria e Marche e del centro-sud come Abruzzo e Lazio; inoltre la troviamo in Sicilia e Sardegna.
Il suo habitat è quello degli incolti, ruderi, lungo i bordi stradali e su suoli calpestati, di solito a reazione basica, ma anche su sabbie silicee, dal livello del mare alla fascia subalpina (circa 2.000 m. s.l.m.).
Descrizione –
Il guado è una pianta erbacea biennale che può raggiungere un’altezza compresa tra i 40 ed i 120 cm.
Nel suo primo anno di vita la pianta rimane in una fase vegetativa nella quale forma una rosetta di foglie; nel secondo anno si ha lo sviluppo dello stelo fiorale che porta alla successiva fruttificazione. L’intera pianta è glauca.
Le foglie sono di forma lanceolata, con dimensioni da 1,5 a 5,0 cm di lunghezza.
L’infiorescenza è costituita da una ventina di steli di color blu porpora che portano fiori (riuniti in densi racemi in forma di corimbo) con sepali ellittici e petali gialli, di cui solo alcuni giungono a maturazione. Il diametro del cespo varia da 3,5 cm a 18 cm.
L’antesi è tra maggio e luglio.
Coltivazione –
La Isatis tinctoria cresce su terreni ben drenati e ricchi, ama la luce ma può crescere anche a mezz’ombra; è una pianta di facile coltivazione che si risemina da sola anche se non ama sfruttare due volte lo stesso terreno.
Le foglie sono raccolte fin dal primo anno e 3-4 raccolti possono seguire al primo. il primo anno forma una rosetta dall’aspetto fresco e dal grosso fittone; impiega 20 mesi a fiorire e dal secondo anno con il suo fiore giallo può illuminare tutto il giardino.
Usi e Tradizioni –
Il guado è una pianta da sempre conosciuta e apprezzata per le sue proprietà tintorie legate al colore blu.
Fece la ricchezza della città di Erfurt (in Turingia), ma già gli antichi Egizi, i Bretoni e i Romani la usavano come rimedio e come colorante.
Testimonianze del suo antico utilizzo provengono da India, Medio oriente e Nord Africa, mentre in Europa ha la sua massima diffusione solo in epoca tardo Medioevale. Le ragioni di questo ritardo sono dovute al fatto che il colore è anche una costruzione culturale: nelle società europee mediterranee il blu ha rivestito per tutta l’antichità e l’alto medioevo un marginale ruolo simbolico, per i Romani ha addirittura connotazioni negative in quanto identificato con il colore dei barbari che avevano l’abitudine di colorarsi il corpo per spaventare i nemici.
Il guado, come colorante, veniva infatti utilizzato anche dai Britanni per tingersi il volto del caratteristico colore blu/azzurro che rendeva il loro aspetto più terribile in battaglia; “tingere” qualcosa, nel mondo civile, equivaleva a dire colorarlo di rosso. Solo a partire dal XII secolo il blu va incontro a una progressiva valorizzazione, fino a un totale ribaltamento della prospettiva in età moderna: a un tratto, il blu, diventa bello.
La coltivazione e il commercio del guado cominciano quindi ad assumere una notevole rilevanza economica, in particolare in Turingia e nei territori occitani compresi tra le città di Tolosa, Carcassonne e Albi, tanto da dare origine all’espressione pays de cocagne – paese della cuccagna – per indicare un luogo di straordinaria abbondanza e prosperità: le coques o cocagnes erano i pani di pasta tintoria pronti per la vendita. Anche in Italia, tra XIV e XV secolo, il guado è alla base di flussi commerciali essenziali per lo sviluppo economico di numerosi comprensori. Viene lavorato in Umbria (il nome della città Gualdo Tadino deriva da questa pianta), nelle zone appenniniche delle Marche settentrionali (Montefeltro, alta valle del Metauro e del Foglia, Massa Trabaria), in alcuni territori toscani (aretino, Val Tiberina), piemontesi e liguri, ma anche in altre parti del paese. Il suo pigmento blu trovava impiego, oltre che per la colorazione dei tessuti, in molti settori artistici, dalla miniatura dei manoscritti alla decorazione della terracotta, ai quadri dei grandi artisti rinascimentali: ha avuto largo impiego, ad esempio, in numerosi dipinti di Piero della Francesca, il cui padre era un ricco mercante di guado di San Sepolcro.
Successivamente si ha un declino dell’Isatis tinctoria intorno al XVI secolo quando il suo blu viene soppiantato dalla materia tintoria estratta dall’Indigofera – da cui il nome “indaco” – una pianta che presentava rese nettamente superiori, migliore uniformità cromatica e maggiore facilità di lavorazione.
Bisogna arrivare agli inizi del XIX secolo per assistere ad un accenno di ripresa per la coltivazione dell’ Isatis tinctoria, quando il blocco dei rapporti commerciali con l’Inghilterra disposto da Napoleone, noto come Blocco continentale (1806), interrompe anche le rotte di importazione dell’indaco rendendo necessario recuperare le tecniche, ormai desuete, di estrazione del pigmento blu da piante locali. Con decreto imperiale vengono banditi dei premi in denaro per chi fosse riuscito a trovare i migliori e più redditizi metodi per la coltivazione e la lavorazione del guado oppure a scoprire un’altra pianta da cui estrarre colore di qualità paragonabile a quello dell’Indigofera delle Indie e delle Americhe.
Così nella finestra temporale del primo decennio del secolo si mobilitano quindi agronomi e chimici, che danno alle stampe diversi manuali sia in lingua francese che in italiano. Tra questi Giuseppe Morina, socio corrispondente del Reale istituto d’incoraggiamento alle scienze naturali di Napoli, che apre le sue Memorie scientifiche attorno al guado affermando essergli “ben note le savie premure del Reale Istituto d’Incoraggiamento di promuovere in questo Regno la fabbricazione dell’indaco, per quindi esimere la nostra nazione da un tributo, che annualmente paga agli esteri per l’acquisto di siffatto prezioso articolo tanto necessario per le tinte azzurre”.
La fiorente economia legata a questa pianta viene gradualmente poi soppiantata quando i coloranti sintetici prodotti industrialmente, meno costosi, dalle tinte più costanti e di maggior tenuta, mettono fuori mercato l’uso dei coloranti naturali (che d’altra parte, soprattutto nelle vaste coltivazioni indiane, si reggevano su uno sfruttamento brutale della manodopera locale da parte dei colonizzatori europei). La struttura molecolare dell’indaco viene determinata nel 1878, quattro anni dopo viene realizzata la prima sintesi chimica e nel 1897 due fabbriche tedesche avviano la produzione dell’indaco di sintesi su scala industriale, messo in commercio a un prezzo inferiore di due marchi al chilo rispetto a quello naturale. Peccato che in cambio dell’economicità e di un colore perfetto, che non sempre fa rima con bello, le tinture sintetiche siano anche inquinanti e nocive, determinando un grosso impatto ambientale nella fase di produzione e lasciando sui tessuti residui tossici causa di sempre più frequenti reazioni allergiche e dermatiti da contatto.
La tossicità ed insostenibilità dell’uso dei coloranti di sintesi sta riportando oggi ad una graduale riscoperta di questa ed altre piante tintorie.
Il Guado viene coltivato come impiego fondamentale per l’estrazione del colore blu, ma in passato è stata anche utilizzata come pianta medicinale per far fronte a carenze di ferro e stati di debilitazione, per stimolare la crescita dei bambini, per curare scorbuto e altre patologie e, per le sue proprietà astringenti e cicatrizzanti, come impacco esterno contro dermatiti, piaghe e ferite. È impiegabile come foraggio per gli animali, anche se ha sapore amaro, ma raramente viene usata nell’alimentazione umana per la sua non facile digeribilità.
Il colorante è contenuto nelle foglie prodotte nel primo anno di vita della pianta, essendo la concentrazione abbastanza bassa è necessario utilizzarne abbondanti quantità, raccolte in piena maturazione. Il taglio non danneggia la pianta, che farà crescere nuove foglie consentendo quattro o cinque raccolte per stagione, a distanza di circa venti giorni l’una dall’altra. A fine estate le proprietà tintorie vanno riducendosi, per questo motivo era solitamente proibito che l’ultimo raccolto venisse mescolato con i precedenti ed era tradizionalmente fissato un termine ultimo di raccolta, che alcuni statuti medievali dell’Italia centrale indicano per il 29 settembre.
Le foglie di Isatis tinctoria contengono due composti organici complessi (glucoside indacano e estere isatanoB) non solubili in acqua; la sostanza colorante (indigotina) non è quindi disponibile direttamente ma va ricavata attraverso una precisa lavorazione. La resa non è molto elevata, considerando che da un chilo di foglie si possono ottenere non più di uno o due grammi di colore.
Negli anni Settanta e Ottanta, lo studioso di storie locali Delio Bischi ha riportato alla luce nel territorio appenninico del Montefeltro diverse macine in pietra con particolari scanalature, spesso riadattate come basamenti di croci, edicole e altre costruzioni, ipotizzando un utilizzo diverso da quello delle macine per grano e olive. Si trattava infatti di macine da guado utilizzate nelle antiche pratiche di lavorazione di questa pianta, che riducevano le foglie fresche in poltiglia. Già in questa prima fase del processo produttivo non mancava chi era pronto a intervenire fraudolentemente per proprio vantaggio: “alcuni agricoltori di mala fede gettano della sabbia sotto la macina, adducendo per pretesto che ciò è necessario per impedire l’adesione della pasta alla circonferenza, ma il vero scopo è di aumentare il peso del pastello.
La pasta così ottenuta era dapprima lasciata riposare per un paio di settimane su graticci o su un piano inclinato, dando avvio a una prima fermentazione con l’accortezza di controllare costantemente la presenza di eventuali incrinature della superficie, da chiudere per evitare il proliferare di vermi; successivamente la pasta veniva modellava in pani o palle (coccagne) che di nuovo, rigirandoli spesso, erano lasciati stazionare in luoghi ariosi e ombreggiati mentre al loro interno proseguiva il processo di fermentazione. I pani venivano modellati grazie all’aiuto di apposite scodelle in legno, il loro peso e le loro dimensioni erano precisamente regolamentati: “i pani perfetti si conoscono spaccandoli, perché dentro sono sempre violacei e tramandano odore assai grato; mentre gli altri, e più quelli della foglia raccolta in tempo umido, danno colore terreo ed odore spiacevole”. Dopo alcune settimane, diventati ben duri, erano consegnati al macero. Qui venivano sbriciolati in acqua, urina e aceto (o vino) e lasciati macerare per almeno quindici giorni. Si può immaginare che l’odore emanato dai maceri da guado non fosse dei migliori e infatti diversi documenti d’archivio testimoniano come loro ubicazione venisse il più delle volte dislocata fuori dalle mura cittadine. A fine macerazione, la pasta di guado veniva essiccata e ridotta in polvere, quindi venduta ai tintori.
Ricette medievali per l’estrazione del colore blu dal guado si possono leggere nel manoscritto 2861 della Biblioteca Universitaria di Bologna. Si tratta di un codice di piccolo formato, costituito da 239 carte di 15 righe, inizialmente conservato presso il convento di San Salvatore di Bologna dove aveva fatto ritorno dopo le requisizioni napoleoniche, trascritto integralmente per la prima volta da Mary P. Merrifield nel secondo volume del suo Original treatises on the arts of painting (1849). Tra i procedimenti proposti nel manoscritto, ad esempio, si trova il seguente, così tradotto da Francesca Muzio: “pesta molto sottile erba di guado, fanne pallottole come mele, poi prendi per ogni libbra di guado due once di sale comune, tre once di zolfo vivo e un’oncia di allume di rocca; quindi trita bene tutto insieme e mescola con l’erba. Metti tutto in un vaso di rame con acqua pulitissima e stempera come fosse una salsa non troppo densa; metti al fuoco brillante, e lasciacelo tanto che diventi come pasta; polla quindi sopra una tavola e stendila piuttosto sottile. Tagliala con il coltello come ti pare, metti ad asciugare e sarà fatto l’indaco”. O, ancora, quest’altra ricetta alquanto sbrigativa: “impasta fiore di guado insieme con orina e aceto forte, fanne un migliaccio e seccalo al sole. E se schiarisse, mettici più fiore di guado tanto che abbia un buon colore; poi fanne pezzi, lascialo finire di seccare, e sarà fatto”.
Successivamente con l’arrivo sul mercato dell’Indigofera tinctoria viene messo a punto un diverso procedimento di estrazione del pigmento indaco, ossia per ossigenazione. Tale procedimento viene esteso anche al guado ed è quello che ancora oggi continua a essere sperimentato e messo a punto, con molte e diverse varianti. In estrema sintesi, il processo parte dalla macerazione delle foglie fresche in acqua calda, segue il filtraggio e l’aggiunta di una base forte (liscivia, calce spenta o soda caustica) per alzare il pH. Va poi favorita l’ossigenazione, anche semplicemente rimestando il tutto con forza e più volte, in questo modo l’indacano contenuto nelle foglie si ossida dando origine all’indaco che, non essendo solubile, precipita sul fondo del contenitore. Negli antichi maceri si utilizzava solitamente un sistema formato da tini posti a diversi livelli, in modo da svolgere le varie operazioni sfruttando la caduta del liquido, dal maceratoio, al battitoio, al riposatoio. Successivamente si passa all’asciugatura all’aria o al calore di una stufa, quindi alla raccolta del colore in forma solida. Un’ultima fase consiste nel riporre i pani così ottenuti in barili chiusi, per tre settimane circa, in modo che possano trasudare l’umidità in eccesso; dopo un’ulteriore asciugatura il blu è definitivamente pronto: “vendasi quanto più prontamente – suggeriscono i manuali – ove non si voglia sottostare a una tara d’un decimo ed anche più, la quale avviene alla pasta ne’ primi sei mesi dopo fatta”.
Il colore passava quindi nelle mani dei tintori. Le tecniche degli antichi procedimenti di tintura, malgrado la loro importanza economica e sociale, sono rimaste conosciute in modo solo approssimativo attraverso testimonianze indirette, come i libri contabili in cui erano registrati quantità e qualità degli ingredienti utilizzati o gli statuti medievali di Arti più importanti (Arte della lana e della seta) che controllavano l’attività tintoria regolandola sulle proprie esigenze, pertanto, tali documenti, tramandano “tutto quello che il tintore non doveva fare; ma più raramente ciò che il tintore avrebbe dovuto fare; mai, o quasi mai, come avrebbe operato in concreto”.
La solidità del colore estratto da questa pianta è provata dagli arazzi medioevali giunti fino a noi: i verdi dell’Arazzo di Bayeux sono stati tinti con guado sormontato sul giallo della ginestra minore e i blu dell’Arazzo dell’apocalisse hanno superato i secoli.
Il guado era tra i coloranti indaco utilizzati, un tempo, per la tintura della tela con cui venivano confezionati i pantaloni blue jeans. I blue jeans, grazie alle fibre da cui vengono ricavati, sono molto resistenti ed erano usati come divisa per operai che si strusciavano per terra e avevano bisogno di un abito resistente.
Per quanto riguarda l’edibilità, le foglie richiedono un lungo ammollo per essere usate, poichè sono molto amare e mantengono un po’ d’amaro anche dopo bollite. I semi anche se non edibili contengono fino al 34% di proteine e il 38% di grassi
In riferimento al suo valore terapeutico, per uso interno la pianta ha effetto molto astringente, si usa per via esterna come poltiglia o cataplasma per sanare ulcere, infiammazioni e fermare emorragie. Le foglie hanno proprietà antibatteriche, antivirali, antitumorali, astringenti e febbrifughe. Le foglie sono raccolte in estate e possono essere impiegate fresche o secche, vengono anche macerate per estrarre il pigmento blu utile contro convulsioni, parotiti e febbri nei bambini. La radice come tutta la pianta è antibatterica e antitumorale.
Oggi questa pianta, seppur quasi completamente sostituita dall’Indaco (Indigofera tinctoria) e dai coloranti sintetici, è ancora utilizzato per migliorare le rese dei verdi, dei blu e dei neri. L’olio contenuto nei semi viene impiegato in cosmesi; con l’estratto della pianta si possono trattare i legni al fine di conservarli meglio.
Modalità di Preparazione –
Oggi è possibile acquistare il pigmento blu estratto dalla pianta da artigiani specializzati e tingere le stoffe preparando un “bagno colore” di acqua tiepida (55°C) con l’aggiunta di soda e idrosolfito di sodio.
Il colorante si estrae dalle foglie di questa pianta raccolte durante il primo anno di vita. Dopo macerazione e fermentazione in acqua si ottiene una soluzione giallo verde che agitata e ossidata produce un precipitato (indigotina). Il colorante, molto solido, è utilizzabile nella tintura della lana, seta, cotone, lino e juta, ma anche in cosmetica e colori pittorici.
Guido Bissanti
Fonti
– Acta Plantarum – Flora delle Regioni italiane.
– Wikipedia, l’enciclopedia libera.
– Treben M., 2000. La Salute dalla Farmacia del Signore, Consigli ed esperienze con le erbe medicinali, Ennsthaler Editore
– Pignatti S., 1982. Flora d’Italia, Edagricole, Bologna.
– Conti F., Abbate G., Alessandrini A., Blasi C. (a cura di), 2005. An annotated checklist of the Italian vascular flora, Palombi Editore.
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