Gli antichi Romani e l’agricoltura
Gli antichi Romani e l’agricoltura
Nell’antica Roma l’agricoltura, col tempo, era diventata uno stile di vita.
Questo passaggio fu ovviamente graduale e ce lo testimonia Ovidio nei Fasti:
“Cerere fu la prima a migliorare la nutrizione dell’uomo, sostituendo le ghiande con cibo migliore.”
Sembra infatti che i primi Romani si nutrissero di una farina di ghiande, il cibo più abbondante, visto che a Roma abbondavano i querceti, finché per consiglio divino (siamo in era matriarcale e le sacerdotesse consigliavano per ispirazione e oracoli), decisero di coltivare i cereali fino ad allora allo stato selvatico.
Il farro fu il cereale più usato ma Cerere (latino: Cere, da cui deriva il termine cereale) teneva in mano un fascio di spighe di grano, e così la Dea Opi, per cui di sicuro fu coltivato da subito, ma solo successivamente si capì che era il cereale più nutriente e sano.
Cicerone considerava l’agricoltura come la migliore fra le occupazioni romane. Nel suo trattato Sui doveri, dichiarava che: ‘fra le occupazioni nelle quali il guadagno è assicurato, nessuna è migliore dell’agricoltura, né più proficua, né più piacevole, né più consone all’uomo libero.’ Quando uno dei suoi clienti fu deriso nella corte per aver preferito uno stile di vita rurale, Cicerone difese la vita di campagna come ‘maestra di economia, operosità e giustizia’ (parsimonia, diligentia, iustitia).
Si ricorda inoltre che Catone, Columella, Varrone e Palladio scrissero manuali sull’attività agricola.
La coltivazione di base nell’antica Roma era il grano e il pane era la’limento fondamentale di ogni tavola romana.
Nel suo trattato De agricultura (“Sull’agricoltura”, II secolo a.C.), Catone scrisse che la produzione migliore era il vigneto, seguito da: un giardino irrigato, una piantagione di salici, un uliveto, un pascolo, un campo di grano, alberi da foresta, un vitigno sostenuto da alberi, e infine un bosco di alberi da ghianda.
Nonostante Roma si appoggiasse alle risorse prodotte delle sue molte province ottenute con guerre e conquiste, i Romani più ricchi svilupparono le terre in Italia per produrre una varietà di prodotti. “La popolazione della città di Roma costituiva un grande mercato per l’acquisto degli alimenti prodotti nelle aziende agricole italiche”.
La proprietà terriera –
La proprietà della terra era un fattore determinante nella distinzione fra l’aristocrazia e la plebe, e più terra possedeva un romano, più sarebbe stato importante nella città. I soldati erano spesso ricompensati con terreni dai comandanti sotto i quali servivano. Nonostante le aziende agricole dipendessero dal lavoro servile, uomini liberi e cittadini venivano assunti per supervisionare gli schiavi e assicurare che l’azienda funzionasse agevolmente.
La Roma arcaica era fondata sulla piccola proprietà terriera. Secondo la tradizione Romolo aveva assegnato a ogni cittadino un appezzamento di due iugeri (mezzo ettaro); in seguito la terra assegnata al soldato romano fu di sette iugeri.
Quando Roma iniziò a conquistare terre oltre confine, queste diventarono “agro pubblico”.
Una parte di questi terreni veniva divisa in centurie e assegnate ai soldati per garantirgli la sussistenza. Altri terreni venivano affittati a privati che li coltivavano trasmettendoli pure in eredità, ma la proprietà restava statale. Da agro e cultura deriva la parola Agricoltura.
Naturalmente i comandanti militari, fino a Cesare solo aristocratici, ebbero le terre più vaste, che potevano far lavorare da coloni e da schiavi.
I Senatori romani non potevano essere commercianti, categoria riservata agli equites, che importavano ed esportavano merci oltre confine, per cui gli unici loro investimenti erano sulle terre, sperando così di limitare la loro brama di ricchezze. Ma naturalmente questa brama non fu placata nemmeno dalle leggi.
Infatti dopo le guerre puniche i Senatori aggirarono con vari artifici la legge che vietava di occupare più di 500 iugeri (100 ettari) di agro pubblico, acquistando i latifondi, cioè territori agricoli enormi, coltivati da schiavi.
Con la legge agraria del 111 a.c. l’agro pubblico divenne privato, diventando una vera rendita per i proprietari ormai latifondisti. Le ville rustiche si trasformarono così in sfarzose ville suburbane, e i campi si trasformarono in grandi pascoli con mandrie o greggi da affidare a schiavi-pastori, che le guidassero nella transumanza verso l’Adriatico o il Tirreno.
Durante il V secolo a.C., le terre erano divise in piccoli appezzamenti a conduzione familiare. I Greci del periodo, però, avevano iniziato ad usare la rotazione delle colture e ad avere grandi tenute. I contatti romani con Cartagine, la Grecia e l’est ellenistico, migliorarono i metodi dell’agricoltura romana, che raggiunse il suo apice in produzione ed efficienza fra l’età tarda della repubblica e l’inizio dell’impero Romano.
Si sa che la dimensione delle aziende agricole a Roma poteva essere divisa in tre categorie. Le piccole proprietà terriere potevano avere da 18 a 108 iugeri, dove uno iugero equivaleva a circa 0.65 acri o ad un quarto di ettaro. Le medie proprietà avevano dagli 80 ai 500 iugeri. Le grandi proprietà terriere (chiamate latifondi) avevano oltre 500 iugeri.
Nell’epoca della tarda repubblica, il numero di latifondi aumentò. I romani benestanti compravano la terra ai contadini della plebe che non riuscivano più a guadagnarsi da vivere; infatti, dal 200 a.C., le Guerre Puniche chiamarono alle armi i contadini plebei per lunghi periodi di tempo.
Le tecniche agricole –
“Non finisco di meravigliarmi del fatto che delle altre arti meno necessarie alla vita, si trovano dei maestri, mentre non si trovano né maestri né discepoli della scienza dei campi” (Columella).
Dobbiamo soprattutto a Plinio il Vecchio le specificazioni su tutte le notizie riguardanti l’attività contadina e pastorale, ma pure a Catone il Censore, a Varrone e a Columella.
Durante il periodo romano nacque così il primo trattato di agricoltura “De agri cultura” del 160 a.c., di Marco Porcio Catone, in cui il contadino viene esaltato come condizione sociale:
“Dagli agricoltori, invece, nascono uomini fortissimi e soldati valorosissimi, e il loro guadagno è giusto e al riparo da ogni insicurezza, nulla ha di odioso; e coloro che si dedicano all’agricoltura non sono tratti a cattivi pensieri.” Il libro è un trattato di agricoltura, e un investimento per il proprietario terriero se segue i giusti canoni, unito a un dettagliato ricettario.
Il centro della grande proprietà era costituita dalla villa rustica che aveva una parte padronale e una parte rustica, per agli alloggi degli schiavi e il magazzino degli attrezzi. Riguardo alle colture, Catone mise al primo posto il vigneto, poi l’orto, il saliceto per legare le viti, l’uliveto, il prato per il bestiame, la coltura seminata, il bosco ceduo e il bosco a ghiande.
La manodopera doveva essere di schiavi, in squadre controllate da un maschio e una femmina, schiavi anch’essi, che fungevano da fattore.
Il vigneto doveva essere di circa 100 iugeri (20 ettari), lavorati da 16 schiavi, cioè dai due fattori, dieci braccianti, un aratore o bifolco, un asinaio, un addetto al saliceto (o legatore di viti) e un porcaro.
La coltivazione principale però era quella dei cereali: grano, farro, orzo, sui quali si basava l’alimentazione di uomini e cavalli. Mentre l’antico nutrimento romano era il farro, in età repubblicana e soprattutto imperiale si spostò sul frumento, molto più nutriente e salutare.
L’uliveto raccomandato era di 240 iugeri (48 ettari), lavorato da 13 schiavi, per la produzione del l’olio la cui vendita, come quella del vino, era molto redditizia. Si spremevano le olive in contenitori di pietra, pestando con mazze e bastoni.
Verso il 40 a.c. Lucio Giunio Moderato Columella scrisse “De re rustica”, descrivendo in qualità di fattore gli esperimenti di suo zio sull’incrocio degli animali da allevamento, e dando consigli pratici sull’agricoltura. Scrisse anche un trattato sugli alberi: “De arboribus”.
Quasi contemporaneamente Marco Terenzio Varrone scrisse un’altra “De re rustica”, con consigli vari su come amministrare i piccoli e i grandi fondi terrieri, sulla pastorizia e sugli animali che si potevano allevare con soddisfazione nelle Ville suburbane.
Cesare stabilì che 1/3 dei pastori, fino ad allora schiavi, doveva essere di uomini liberi e quindi pagati, così i contratti lavorativi migliorarono per i contadini. I coloni, che usavano il forno e il mulino, si rendevano disponibili nei periodi dell’anno di maggior lavoro, ma per il resto lavoravano per se stessi.
Per il raccolto però le cose peggiorarono, tanto che si decise di limitare l’agro destinato a pascolo e a vigneti, perché i cereali erano insufficienti e dovevano essere importati, quando già lo stato ne elargiva tanto per la popolazione nullatenente. Ogni anno infatti Roma donava ai cittadini non proprietari di beni immobili, il grano annuale per la sopravvivenza.
I Romani migliorarono la crescita del grano innaffiando le piante con l’utilizzo degli acquedotti ed esistono prove sempre maggiori che parte del processo era meccanizzato. Per esempio, ci fu un ampio utilizzo di mulini in Gallia e a Roma per trasformare il grano in farina. I resti più impressionanti ancora esistenti si trovano a Barbegal, nel sud della Francia, vicino ad Arles. Sedici mulini ad acqua divisi in due colonne venivano nutriti dall’acquedotto principale di Arles, nel quale l’efflusso d’acqua del primo riforniva il successivo della serie. I mulini apparentemente operarono dalla fine del primo secolo d.C. fino alla fine del III secolo. La portata dei mulini è stata stimata attorno alle 4.5 tonnellate di farina giornaliere, sufficienti a rifornire di pane i 12 500 abitanti che occupavano la città di Arelate a quel tempo.
La ruota idraulica verticale era ben conosciuta ai Romani, descritta da Vitruvio nel suo De Architectura del 25 a.C., e menzionata da Plinio il Vecchio nella sua Naturalis Historia del 77 d.C. Esistono anche riferimenti successivi a mulini ad acqua galleggianti da Bisanzio e di segherie sul fiume Moselle da parte del poeta Ausonio. L’uso di mulini ad acqua sequenziali fu largamente utilizzato nelle miniere romane.
Ci sono evidenze dirette da bassorilievi sull’utilizzo di una qualche tipo di mietitura automatica nella raccolta di grano maturo. Si crede che o i Romani o i Celti prima di loro, inventarono la mietitrice meccanica o meglio una sua rudimentale antesignana, che tagliava o strappava le spighe lasciando il gambo a terra, ed era spinta da buoi o cavalli. Plinio il vecchio menziona questo congegno nella Naturalis Historia XVIII, 296. La macchina era stata dimenticato nel Medioevo, quando si ritornò all’utilizzo di falci e falcetto per i raccolti.
Ma nell’antica Roma non si coltivava, ovviamente solo grano e cereali; trovavano spazio altre coltivazioni che, spesso, erano anche legate alla disponibilità di acqua.
Era molto praticata nel mondo antico, l’orticoltura anche se su più limitate superfici lavorate; questa richiedeva, ovviamente, una maggiore richiesta di irrigazione (con acque fluenti o di pozzo/cisterna) e di lavorazione, a zappa e a mano, e non ad aratro (zappatura, diserbo), per necessità di concimazione (con cenere, sterco d’asino, guano colombino), perché non richiedevano riposi biennali (maggese), bastando a mantenere la fertilità del suolo l’alternanza delle colture sulle singole parcelle. Gli antichi del resto conoscevano e sfruttavano le potenzialità fertilizzanti delle leguminose, che consentivano una rotazione delle colture anche su campi aperti.
Accanto alla coltivazione orticola, varietà selvatiche delle specie coltivate (bulbi come gli odierni lampasciuni), e specie non coltivate (asfodelo, scorzonera), erano correntemente oggetto di raccolta.
Presso le classi più povere e i piccoli proprietari, l’orticoltura rimpiazzava i cereali: un appezzamento di mezzo ettaro non poteva sostenere l’onere del bove per l’aratura. Pertanto i legumi con il loro grande valore proteico e calorico, potevano rimpiazzare in parte i cereali.
Il vantaggio dell’orto rispetto al campo era anche quello del poter cogliere subito i frutti, lungo le varie stagioni, di prodotti che non richiedevano trebbiatura, macinatura, torchiatura ecc.. I prodotti dell’orto richiedevano solo bollitura o tostatura, e nel caso di insalate, cipolle e cetrioli, si mangiavano crudi.
Per quanto riguarda l’arboricoltura questa era soprattutto olivicoltura e viticoltura, e poi gli alberi da frutto che fruttificavano spontaneamente e non richiedevano lavoro.
La coltura dell’olivo fu importata a Roma dalla Grecia, attraverso le colonie della Magna Grecia. In Italia erano diffuse specie di olivi selvatici (oleastri), cui vennero applicate le pratiche di innesto per renderli fruttiferi.
Mentre l’olivicoltura non richiedeva un grande investimento lavorativo, perché bastava la potatura, la coltura della vite, era molto più complessa. Non solo di doveva curare la pianta e raccogliere l’uva, ma si doveva poi trasformare l’uva in vino, molto più complesso che trasformare le olive in olio. Inoltre, il vino, una volta maturato, facilmente diventava aceto, se non veniva accuratamente trattato.
Sia la viticoltura che l’olivicoltura non solo si provvedeva il consumo italico, ma si esportava anche su lunghe distanze. Infatti essendo il luogo molto adatto alla coltivazione anche per la forte presenza vulcanica, allora come oggi, i prodotti italici erano particolarmente pregiati e apprezzati.
In campo zootecnico le mucche provvedevano al latte, mentre i buoi e gli asini eseguivano il lavoro pesante nell’azienda agricola. Il latte delle pecore e capre era utilizzato nella produzione di formaggi, mentre le loro pelli erano considerate di valore. I cavalli non erano utilizzati per la maggior parte nell’agricoltura, ma usati dai ricchi nelle corse o nelle guerre. La produzione di zucchero si concentrò sull’apicoltura, mentre alcuni Romani allevarono lumache come vivanda di lusso.
La conduzione fondiaria –
I Romani utilizzavano quattro metodi di conduzione dei terreni agricoli:
– lavoro diretto eseguito dal proprietario e dalla sua famiglia;
– terreno affittato a terzi o mezzadria, che consisteva nella divisione dei prodotti fra il proprietario e il mezzadro;
– lavoro eseguito da schiavi posseduti da aristocratici e sottoposti ad un continuo supervisionamento;
– altri arrangiamenti in cui la terra era ceduta in affitto ad un contadino.
A tal proposito Catone il Vecchio (conosciuto anche come Catone il Censore) fu politico e uomo di stato della seconda metà dell’età repubblicana romana e descrisse il suo punto di vista su come dovesse essere condotto un lotto di terra di 100 iugeri. Sostenne che una tale azienda agricola dovesse avere: “un caposquadra, la moglie del caposquadra, dieci braccianti, un conducente di buoi, un conducente di asini, un uomo in carica del boschetto di salici, un porcaro, per un totale di sedici persone; due buoi, due asini per il trasporto dei carri, un asino per il lavoro nel mulino.” Disse anche che una azienda agricola dovesse avere: “tre presse completamente equipaggiate, giare in cui raccogliere cinque vendemmie, per un ammontare di ottocento cullei, venti giare per il deposito degli scarti delle presse enologiche, altre venti per il grano, e coperture a parte per le giare, sei amphorae ricoperte per metà da fibre, quattro amphorae rivestite di fibre, due imbuti, tre colini di vimini, [e] tre colini da immergere nei fiori, dieci giare per [il trattamento] del succo d’uva…”
Nell’impero romano, una famiglia di 6 persone doveva coltivare 12 iugeri/ 3 ettari di terreno per riuscire a soddisfare il bisogno nutrizionale minimo (senza animali). Se la famiglia possedeva animali come aiuto per la coltivazione della terra, erano allora necessari 20 iugeri. Lo stesso ammontare era necessario per la sussistenza se il terreno era coltivato usando il metodo della mezzadria, come nell’Africa Proconsolare del II secolo d.C., nel qual caso un terzo del raccolto totale andava al proprietario come pagamento dell’affitto (vedi Lex Manciana).
Per quanto riguarda la manodopera la maggior parte del lavoro era svolta da servi e schiavi. Gli Schiavi erano la principale forza lavoro. Nella società romana, esistevano 3 metodi per ottenere uno schiavo. Il primo, e possibilmente il più comune, metodo per ottenere uno schiavo era di comprarne uno al mercato. Gli schiavi venivano comprati alle aste e comprati dai mercanti di schiavi o scambiati tra mercanti di schiavi. Un altro metodo nel quale gli schiavi venivano acquisiti era attraverso le conquisti in guerra. Come Keith Hopkins spiega nei suoi scritti, molti proprietari andavano in guerra e tornavano con dei prigionieri. Questi prigionieri venivano poi riportati in territorio romano e venivano poi venduti ad un altro cittadino o fatti lavorare nella fattoria di colui che gli aveva imprigionati. L’ultimo metodo per ottenere uno schiavo era attraverso la nascita: se una schiava dava alla nascita un bambino, quel bambino diveniva proprietà del proprietario di quella schiava. Schiavi erano relativamente facili da usare perché erano considerati proprietà; il loro trattamento dipendeva dall’umanità dei loro proprietari, che incontravano le esigenze dei loro schiavi con quello che volevano spendere, non quello che dovevano. I supervisori motivavano gli schiavi imponendo punizioni ed elargendo ricompense. ‘Se il supervisore si opponeva ai crimini, loro non gli avrebbero più fatti; se invece gli faceva permettere, il padrone non doveva lasciarlo andare impunito.’ nonostante la crudeltà totale nei confronti di schiavi fosse considerato un segno di cattivo carattere nella cultura romana, c’erano pochi limiti alle punizioni che un supervisore o proprietario di schiavi potevano infliggere.
Guido Bissanti