Agroecologia e paesaggio
Agroecologia e paesaggio
L’evoluzione del paesaggio agrario ha risentito, nei secoli, del particolare approccio umano alle cose della terra e della sua gestione e coltivazione, determinando una identità che viene studiata soprattutto nelle evoluzioni storiche delle colture che hanno portato all’aspetto attuale.
Inoltre le differenti condizioni morfologiche e pedoclimatiche, e la distribuzione originaria delle specie successivamente addomesticate, hanno influito sulle organizzazioni produttive e sulla evoluzione dei paesaggi.
Tuttavia il paesaggio risente, come è ovvio dedurre, delle esperienze acquisite e delle evoluzioni scientifiche e tecniche che, soprattutto negli ultimi secoli, hanno caratterizzato la storia umana.
In tal senso le cosiddette rivoluzioni agricole hanno inciso profondamente sui paesaggi agrari coinvolgendo, comunque, anche le organizzazioni urbanistiche dei centri abitati.
Dall’Antica Mesopotamia e Valle dell’Indo (circa 4.000-1.500 a.C.), fino alla Rivoluzione Verde (a partire dalla metà del XX secolo) il rapporto tra umanità e territorio ha subito profonde evoluzioni che hanno inciso notevolmente sui paesaggi agrari.
Esiste, pertanto, una stretta relazione tra sistema agricolo e paesaggio agrario tanto che, con l’avvento della moderna agricoltura, promotrice delle coltivazioni e degli allevamenti specializzati e, spesso, della monocoltura, i paesaggi agrari hanno subito notevoli modifiche e trasformazioni.
Inoltre gli stessi concetti e definizione di “paesaggio” sono argomenti complessi da descrivere e circoscrivere, anche perché si tratta di una visione che ha subìto una profonda evoluzione nel tempo, per cui è necessario fornire alcune coordinate fondamentali che ci aiutino a darne un senso comune e compiuto.
Questo perché, in questa fase storica, stiamo transitando dalla visione antropocentrica del mondo, in cui l’uomo era centro di osservazione e dominio, a quella ecologica e quindi ecocentrica, in cui l’uomo è parte di un insieme. In questa nuova visione il paesaggio non è più esterno all’uomo ma è l’uomo che si trova al suo interno e, ovviamente, tutto questo trasforma l’intera prospettiva e le possibili interazioni.
Questo cambio di paradigma è dettato, come vedremo più avanti, dai riflessi che tutte le scoperte, in gran parte già del secolo scorso, stanno imprimendo alle dinamiche della stessa percezione della realtà che ci circonda.
In questo cambiamento dobbiamo quindi scendere “dall’olimpo degli dei” per assumere una visione nuova. La mancanza di questa visione ci ha condotti, infatti, ad una interazione col paesaggio e dei suoi ecosistemi, che ha prodotto insiemi urbanistici sempre più concentrati in grandi città e, purtroppo, allo spopolamento e al degrado delle aree interne e dei piccoli centri abitati e alla perdita, spesso, di identità di interi paesaggi. La responsabilità è da addebitare ad un’errata lettura della funzionalità degli ecosistemi, sia su vasta scala che di dettaglio.
Sappiamo infatti che ogni cellula del territorio risponde a determinati equilibri, senza la conoscenza dei quali la stessa tende a degradarsi, a generare aliquote di entropia crescente, che si manifestano con forme energetiche sempre più povere, sia dal punto di vista ecologico che umano. Si generano così perdita della biodiversità, erosione ecologica, degrado culturale, sociale ed infine, a livello sociale, miseria e povertà. Se dovessimo definire cosa è la povertà, secondo questa prospettiva, potremmo definirla come la diminuita capacità umana di interagire e convivere con le leggi della natura e, quindi, di integrarsi anche con il paesaggio naturale.
Orbene, applicando i bilanci energetici alla gestione degli ecosistemi, di cui l’agricoltura è una parte predominante con circa l’80 % della superficie occupata, abbiamo già evidenziato come le pratiche agricole intensive, per fare un esempio, hanno un rendimento minore di quelle tradizionali; per intenderci quelle antecedenti al Trattato di Roma ed alla cosiddetta Rivoluzione Verde. Questo modello può essere poi traslato a tutte le attività umane. Secondo Jeremy Rifkin questa tendenza è in rapido aumento (Rifkin J. e Howard T. 2000) proprio perché i modelli di produzione: l’agricoltura, l’industria, i servizi, e così via sono fuoriusciti dai canoni dell’efficienza energetica, per rispettare solo necessità di mercato e non ecologiche.
Per capire questa affermazione, ritorniamo per un momento, alla efficienza dei modelli produttivi su uno dei settori che incide, in particolar modo sul paesaggio e quindi sul sistema agro-silvo-pastorale. Questo sistema è in sintesi, come detto, un sistema dissipativo. Quando gestiamo un’azienda agricola, un bosco o un ecosistema, non facciamo altro che attingere, soprattutto alle energie solari ed a quelle del sottosuolo, per trasformarle in energia alimentare o altri servizi ecosistemici, per cui quando produciamo un pomodoro o una spiga di grano, di fatto, accumuliamo queste energie al fine di renderle fruibili per un processo energetico secondario, che è l’alimentazione umana.
Abbiamo visto che, semplificando i concetti, che non sono mai ideali, possiamo affermare che questo processo può avvenire secondo due principali modi: o secondo sistemi termodinamici chiusi o attraverso sistemi termodinamici aperti. Nel primo caso le energie del processo sono libere di fluire ed essere scambiate, mentre le masse devono muoversi il meno possibile e comunque con brevi spostamenti. Nel secondo caso, cioè nei sistemi termodinamici aperti, sia le masse che le energie sono libere di muoversi senza regole. È evidente che quanto più il nostro sistema sociale e produttivo sia del tipo aperto tanto più il rendimento globale del processo sia basso. Oggi gran parte dei sistemi produttivi, che siano agricoli o meno, soprattutto quelli dell’industrializzazione occidentale, sono del tipo aperto e quindi a bassissimo rendimento.
In economia i primi sono sistemi circolari ed i secondi lineari.
Ma c’è un secondo aspetto: in natura il sistema, per poter rendere al meglio, deve necessariamente aumentare la complessità della propria struttura (secondo un ordine di reciprocità energetica) diminuendo la propria entropia. Il sistema, in poche parole, deve biodiversificarsi. In natura si possono pertanto riscontrare modelli di entropia negativa (la cosiddetta neghentropia) che, localmente, permette ai sistemi termodinamici maggiormente chiusi e biodiversificati di avere il più alto rendimento energetico (Prigogine I., Nicolis G. 1982).
Dall’applicazione di questi concetti si possono ricavare una serie di considerazioni che ci permettono di comprendere una successione di dinamiche altrimenti di complessa osservazione e che, gioco forza, incidono sul concetto e sulla evoluzione di paesaggio.
La prima riflessione è di ordine territoriale. Tutti i sistemi, che sia una azienda agricola, un bosco o una città, rispondono a queste leggi: sono tutte strutture dissipative. Ogni qualvolta che il nostro sistema dissipativo riconverte poco e male le energie che riceve la maggiore energia ricevuta rispetto a quella trasformata da seguito ad una produzione di entropia che è una forma di energia degradata, non più trasformabile e che è uno dei fattori fondamentali del cosiddetto riscaldamento globale.
La seconda riflessione, che è conseguente, è invece di ordine umano: parliamo dell’entropia sociale. La comunità, per poter gestire questi modelli energetici poco efficienti, deve creare una serie di feedback (strutture, flussi, sistemi, mercati, burocrazie, e così via), sempre più complessi che assorbono ulteriori aliquote di energia. Nel libro Entropia (1982), di Jeremy Rifkin, questo processo viene visto, se non si pongono i dovuti rimedi, come una funzione di non ritorno. Proprio come in equilibrio chimico, quando il rapporto tra reagenti è prodotti viene eccessivamente squilibrato rischiando di non poter più bilanciare l’equazione.
Così, per porre rimedio a tali incongruenze ed operare in presenza di discipline convergenti, nella accezione più ortodossa di evoluzione del paesaggio, inscindibile da una attenta pianificazione territoriale, si deve andare verso l’individuazione di macroaree geografiche che prendono il nome di Bioregioni. Queste aree, ipotizzate per la prima volta negli anni ‘60 da Peter Berg e Raymond Dasmann, sono la sintesi di quei principi etici, politici ed ideologici, connessi all’ecosistema che li caratterizza. Il bioregionalismo è secondo Thomas Rebb, quella “forma di organizzazione umana decentrata che, proponendosi di mantenere l’integrità dei processi biologici, delle formazioni di vita e delle formazioni geografiche specifiche della bioregione, aiuta lo sviluppo materiale e spirituale delle comunità umane che la abitano”.
Si comprende bene come si tratti di un approccio al concetto di paesaggio, della pianificazione, della gestione del territorio, dei flussi turistici, e così via, che si muove su un piano molto più complesso.
Le conseguenze di un tale approccio hanno evidenti ricadute ecologiche e sociali: in tal modo si accorceranno i rapporti tra produzione e fruizione, a vantaggio di sistemi urbanistici più equilibrati, meno concentrati ed energivori, e con sistemi sociali, ecologici ed energetici di lunga stabilità, dove l’uomo troverà maggiori sincronie con il paesaggio naturale, contribuendo altresì al suo ripristino.
Se invece continueremo ad applicare logiche e politiche nella direzione dei sistemi termodinamici aperti, assisteremo al trend inarrestabile di crescita delle megalopoli, del progressivo impoverimento e degrado delle periferie, con sistemi sociali, ecologici ed energetici molto instabili e di breve durata storica.
Anche il paesaggio agrario, frutto, come detto, di una millenaria storia, ha subito negli ultimi tempi una trasformazione notevole anche se ancora rimangono “ruderi territoriali” a testimonianza di ciò.
Per questo motivo è necessario un modello metodologico interdisciplinare e integrato, per una mappatura e catalogazione dei paesaggi agrari tradizionali (Barbera G. et al. 2014), al fine di operare una attenta pianificazione e gestione territoriale ed una valorizzazione dei paesaggi tradizionali italiani dove, soprattutto l’arboricoltura, con le sue secolari tecniche di diffusione, ha determinato gran parte dei paesaggi come oggi li vediamo e viviamo.
In tal senso anche le tecniche di agroforestazione possono ricoprire un ruolo importante nel ripristino, recupero e rivalutazione ecologica e paesaggistica del paesaggio agrario.
I passaggi chiave per sfruttare l’agroforestazione per la gestione sostenibile del paesaggio comprendono:
– il passaggio a una “scienza della sostenibilità agroforestale”;
– comprendere le traiettorie, le storie e le tradizioni locali dell’uso del territorio;
– potenziamento dell’agroforestazione per benefici su scala paesaggistica;
– promuovere i molteplici valori economici, ambientali, sociali e culturali dell’agroforestazione;
– favorire forme inclusive di governance del paesaggio;
– sostenere il processo di innovazione dell’analisi e della progettazione del sistema agroforestale.
Tale metodica consente all’agroforestazione e alla gestione sostenibile del paesaggio di attuare le strategie chiave per l’attuazione degli obiettivi di sviluppo sostenibile delle Nazioni Unite nei paesaggi produttivi mondiali (Plieninger et al. 2020).
In tal senso l’avvento dell’agroecologia può contribuire a rigenerare e recuperare paesaggi agrari in quanto tale disciplina offre un approccio che mira a creare sistemi sostenibili, ecologicamente equilibrati ed economicamente validi, attraverso il trasferimento dei principi dell’ecologia all’agricoltura. Così i principi agroecologici possono influenzare direttamente la forma e la configurazione del paesaggio agrario. Poiché l’agroecologia promuove l’uso sostenibile delle risorse naturali e la biodiversità, può portare a un cambiamento nell’aspetto degli stessi paesaggi. Ad esempio, l’agroecologia favorisce la diversificazione delle colture, l’uso di tecniche di coltivazione meno invasive, la promozione della biodiversità e la riduzione dell’uso di prodotti chimici sintetici. Questi cambiamenti possono tradursi non solo in un paesaggio agrario più variegato, con più habitat naturali e una maggiore presenza di flora e fauna ma, allo stesso tempo, con forme di recupero di aree naturali più gradite all’esperienza umana.
Inoltre, l’agroecologia incoraggia la partecipazione delle comunità locali e promuove pratiche agricole che rispettano e valorizzano le caratteristiche culturali e storiche di un determinato territorio. Questo può influenzare la pianificazione del paesaggio agrario, ad esempio, attraverso l’adozione di tecniche agricole tradizionali o la promozione di sistemi agricoli fortemente legati alle caratteristiche locali.
Da parte sua il paesaggio influenza l’agroecologia. Anzi è proprio l’agroecologia che si comporta come un liquido nel suo recipiente: ne prende la forma che gli è consentita.
La configurazione del paesaggio, la presenza di elementi naturali come corsi d’acqua, foreste o aree umide, e la struttura delle aree rurali circostanti influiscono, pertanto, sulla scelta delle pratiche agroecologiche. Ad esempio, la presenza di corridoi ecologici o la conservazione di zone umide può favorire la biodiversità e promuovere la presenza di insetti utili per il controllo biologico delle infestazioni.
Come si nota, esiste un legame molto stretto tra agroecologia e paesaggio, e l’una si alimenta dell’altro e viceversa.
L’avvento dell’agroecologia influenzerà l’aspetto e la struttura del paesaggio agrario attraverso la promozione della biodiversità, l’uso sostenibile delle risorse naturali e la partecipazione delle comunità locali. Allo stesso tempo, un paesaggio ben equilibrato ed ecologicamente corretto tende a influenzare la pratica dell’agroecologia, offrendo opportunità per la conservazione della biodiversità e l’adozione di pratiche agroecologiche specifiche.
Tuttavia, per realizzare paesaggi agricoli composti da campi e aziende agricole, seguendo la gestione agroecologica, si richiede la comprensione dei modelli di biodiversità, delle interazioni biologiche e dei meccanismi che determinano e stimolano il funzionamento degli ecosistemi per migliorare i servizi su scala paesaggistica, coinvolgendo gli agricoltori in un approccio dal basso verso l’alto e specifico al contesto (Jeanneret P. et al. 2021).
Non v’è dubbio che, nei prossimi anni, le tematiche che coinvolgeranno la pianificazione del territorio dovranno sempre più vedere la partecipazione di ecologi, agronomi ed altri professionisti con competenze integrate per poter ridare ai paesaggi quella funzionalità ecologica, etica ed estetica utile ad un equilibrio di lunga durata.
Guido Bissanti
Bellissima la definizione di povertà:
la povertà, secondo questa prospettiva, potremmo definirla come la diminuita capacità umana di interagire e convivere con le leggi della natura e, quindi, di integrarsi anche con il paesaggio naturale.