Cosa ci insegna la COP28
Cosa ci insegna la COP28
La COP28 (Conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici del 2023), è stata la XXVIII Conferenza delle Parti della Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici che si è tenuta dal 30 novembre al 12 dicembre 2023 all’Expo City di Dubai, con la presidenza degli Emirati Arabi Uniti.
All’interno della COP28 si è svolta la 18ª Conferenza delle Parti del Protocollo di Kyoto (CMP18) e la 5ª Conferenza delle Parti dell’Accordo di Parigi (CMA5).
Pur con tutte le perplessità, precedute dai lavori preparatori, l’accordo trovato alla COP28 tra tutti i partecipanti è migliore rispetto a quanto si temeva.
Tuttavia gli impegni e le determinazioni sembrano alquanto inadeguati rispetto alla portata e all’urgenza della crisi climatica ed ecologica in corso.
L’unica nota positiva, almeno dal punto di vista della portata della comunicazione, è quello di abbandonare i combustibili fossili, ma con una “transizione ordinata, giusta ed equa anche per i paesi produttori”.
Ovviamente si è trattato di un compromesso e di un pronunciamento ammorbidito per non scontentare del tutto i paesi produttori (Arabia Saudita ed Emirati Arabi in primis) visto che la COP28 si è svolta proprio a Dubai; una location che è sembrata subito molto discutibile.
In sintesi l’accordo invita ad “accelerare la riduzione graduale del carbone” senza sancire una vera scure o almeno un’indicazione chiara per il phase out dalla fonte fossile più pericolosa per il riscaldamento globale (il carbone, appunto). Altrimenti India e Cina avrebbero picchiato i pugni sul tavolo.
Il problema di fondo non è tanto negli impegni più o meno soft ma nella difficoltà di far percorrere il nostro sistema tecnologico ed economico verso una vera transizione ecologica (nonché energetica).
Siamo tutti in una barca (che somiglia molto al Titanic) dalla quale pochi vogliamo scendere per non rinunciare in parte ad una serie di “comodità” o “abitudini” ma in parte perché non capaci di vedere che la vera transizione non è tecnologica: è culturale, scientifica e sociologica.
L’Homo sapiens è divenuto un predatore ecologico e non riesce al momento a transitare verso una cultura che lo veda rispettoso della natura e dei suoi utilizzi.
Da quello che mangiamo a come ci vestiamo, a come ci spostiamo o conduciamo le nostre giornate; quasi tutto è in contrasto con i principi della natura e a poco serve additare responsabilità ai Governi che poi, alla fine, altro non sono che un effetto determinato dalle nostre scelte e del nostro modo di consumare.
In tal senso c’è un altro problema di fondo, una questione insita nel modello: una crisi urgente non può essere risolta in maniera efficace con uno strumento che cerchi di mettere d’accordo circa 200 governi del mondo con agende totalmente diverse e per definizione in conflitto tra di loro.
Per quanto si possa avere fiducia nei processi democratici, credo sia indispensabile valutarne anche i limiti.
Quello che è successo negli ultimi decenni purtroppo conferma i dubbi: nonostante si siano incontrate annualmente decine di migliaia di persone in posti diversi del mondo per trovare soluzioni condivise, in realtà si sono generate soprattutto grandi delusioni in chi aveva un genuino interesse nella soluzione del problema.
Tutto ciò avviene proprio perché un tale processo gestito da tanti attori così diversi non può che giocare sempre al ribasso, visto che ci sarà sempre qualcuno impegnato a rovinare la festa ed invalidare le migliori ambizioni con qualche termine inserito sapientemente nelle pieghe dei testi.
Fino ad oggi tutti gli accordi partoriti dalle COP hanno sempre evitato norme vincolanti nella misura dei risultati e nelle pene eventuali per chi sgarra.
Per questo il modello delle COP è errato o, per lo meno, da rivedere.
Tra l’altro lo scenario geopolitico è cambiato considerevolmente in questi vent’anni e purtroppo nella direzione sbagliata. Le tensioni tra gli stati del mondo sono esplose nel numero e nell’intensità.
In uno scenario siffatto, più simile a un “tutti contro tutti” che a un parlamento coeso, cercare un consenso condiviso pare impresa non solo difficile ma totalmente utopistica.
Maggiori sono le tensioni e i fronti aperti tra i Paesi partecipanti e minori sono le possibilità di costruire insieme azioni coraggiose e visionarie.
Il tema è quindi molto più complesso ed è di ordine socioculturale e del modo di fare politica.
Viviamo in un mondo di contrapposizioni, generato dalla negativa cultura della concorrenza liberista e dalla difesa delle proprie posizioni che, nonostante la crisi climatica, si è acuita ed incattivita.
Tutto ciò ha generato contrasti, voglia di emergere, di superare ma non di cooperare.
Non si è compreso che l’unico modo per uscire dalla crisi è quello di collaborare verso obiettivi comuni, promuovendo una corsa nella stessa direzione e non gli uni contro gli altri.
Un nuovo modo di trovare soluzioni che siano utili per tutti e che ognuno, attraverso idee innovative e azioni, anche individuali, aiuti anche l’altro.
Questo sentire deve entrare nel DNA di ogni persona per generare quella energia di attivazione che “contagi” la Politica, corrotta non solo dai grandi interessi finanziari internazionali ma operata da persone figlie di una civiltà corrotta.
L’assioma che i politici sono corrotti è una convinzione fin troppo comoda con cui crediamo di metterci la coscienza a posto, emarginandoci ancor di più dalla responsabilità sociale.
Identica cosa succede a livello più alto. Per questo diventa sacrosanto e indispensabile cercare di coinvolgere tutti, visto che il problema è globale. E a maggior ragione è giusto cercare di coinvolgere anche i petrol Stati come gli Emirati Arabi Uniti o il grande mondo della finanza. Vanno coinvolti tutti perché serve mobilitare risorse ingenti. Ma non si può ogni volta rimanere prigionieri di veti incrociati che hanno il solo effetto di rimandare ogni vera decisione al prossimo giro.
È un circolo vizioso da cui non si esce … vivi.
Nello scenario migliore le COP dovrebbero essere dei palcoscenici creati per offrire visibilità mondiale ai progetti migliori, ai governi più coraggiosi e ambiziosi, alle alleanze più virtuose.
Un palcoscenico per chi ha buttato il cuore oltre l’ostacolo e condividere quella soluzione per allargarla ad una platea più vasta grazie ad accordi strategici tra vari stati.
Nella realtà distopica che stiamo vivendo invece avviene spesso il contrario.
Tra l’altro in un momento di confusione generale in cui sembra esser saltato il tradizionale equilibrio stabilito dalle superpotenze storiche (USA, Cina, Russia), sono proprio questi Paesi a voler rimescolare le carte e farsi vedere attivi e decisivi sulla scena internazionale su più fronti (lo sport, le guerre, la prossima Esposizione Universale e anche la crisi climatica).
Così mentre le soluzioni governative a livello internazionale rimangono ad oggi un pallido appiglio, possiamo guardare, paradossalmente, al settore privato. La consapevolezza ambientale diffusa nei cittadini-consumatori richiede comportamenti sempre più virtuosi.
Bisogna lavorare urgentemente sui giovani. Con programmi, obiettivi, prospettive che vadano oltre la cultura corrotta della concorrenza per transitare verso il principio di tutti nella stessa direzione.
In tal senso urge una politica che premi idee, startup, progetti, che vedano nella bioeconomia, nella transizione energetica diffusa, nell’agroecologia, nelle reti, nelle aggregazioni e nel remare tutti insieme; applicando quella Ecologia Sociale, unica novità di questo stanco Millennio, tanto voluta e teorizzata da quel gigante della storia che è Papa Francesco.
Guido Bissanti