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Sfamare il Mondo con l’Agroecologia

Sfamare il Mondo con l’Agroecologia

Il 25 settembre del 2015 i 193 Stati membri delle Nazioni Unite hanno ratificato l’Agenda 2030; si tratta del più grande programma politico, concordato a livello mondiale, mai stipulato.
Un programma per cambiare non solo le politiche internazionali ma per trasformare, a livello locale, il modo di raggiungere un reale benessere delle nostre società.
Agenda 2030 introduce il criterio della connessione tra tutte le azioni della politica, con una visione sistemica e di insieme; in poche parole non più politiche slegate tra loro ma consapevolezza che ogni azione pensata, sia a livello globale che a livello locale, vada valutata per le connessioni e le conseguenze sul resto dei processi.
Tra i 17 obiettivi di Agenda 2030, suddivisi a loro volta in 169 azioni, ci soffermeremo sul numero 2: Fame Zero.
Le finalità dell’obiettivo n. 2 dichiarano che entro il 2030 dovremmo essere in grado di porre fine alla fame e a tutte le forme di malnutrizione. Ciò si otterrebbe raddoppiando la produttività agricola e le entrate dei piccoli produttori (in particolare donne e popolazioni indigene), garantendo sistemi di produzione alimentare sostenibili e migliorando progressivamente la qualità dei terreni e del suolo.
La questione è che con i sistemi di produzione alimentare attuali questo traguardo è praticamente irraggiungibile. Ciò ci porta a comprendere che serve un cambiamento totale di intendere alla produzione agricola, al rapporto tra questa e le comunità, richiedendo a gran voce la velocizzazione di quel cambio di paradigma che va sotto il nome di agroecologia.
La questione che ci deve però far riflettere è che, sulla base dei dati scientifici e delle meta-analisi, gli esperti, i ricercatori e gli scienziati sono concordi su questo; ricordiamo che l’agroecologia non è solo un modo di produrre, rispettando i principi e le necessità degli ecosistemi, ma è un modo anche di connettere sistemi sociali, comunità, capacità, conoscenze, ecc., creando, di fatto, nuovi modelli sociali perfettamente integrati agli ecosistemi dove vivono. Tutto ciò diminuisce la dipendenza dai modelli di economia lineare, che fanno dello sfruttamento delle risorse e delle grandi aggregazioni sociali le loro fortune creando i grandi disagi ecologici e sociali del nostro mondo.
Tra l’altro uno dei principi chiave dell’agroecologia è che questi si basano sulla coltivazioni di più specie sui singoli terreni, replicando in maniera sincrona e coerente gli ecosistemi naturali.
La scienza ci dimostra, oramai da tempo, con le sue ricerche e le meta-analisi, che questi sistemi non solo assicurano una produttività primaria maggiore dei sistemi intensivi e specializzati ma che, nello stesso tempo, consentono un minor apporto di input esterni (fitofarmaci, diserbanti, concimi, ecc.), chiudendo, pertanto, il sistema termodinamico, rendendolo così molto più efficiente, non solo dal punto di vista dell’ecologia ma anche da quello sociale.
Pur se tutti sono concordi su questo il disaccordo nasce sotto le spinte poi di vari grandi gruppi, che con le loro false informazioni e sistemi informativi interessati (Greenwashing) conducono Governi e decisori politici fuori rotta.
Tra l’altro, secondo l’ultimo rapporto delle Nazioni Unite sullo stato della sicurezza alimentare e della nutrizione nel mondo, quasi 690 milioni di persone hanno sofferto la fame nel 2019. Sono 60 in più rispetto al 2015, anno in cui la comunità internazionale adottava l’Agenda 2030. Dopo un costante calo, dal 2014 si registra un graduale aumento del numero di persone che vanno a dormire a stomaco vuoto (mentre in altri Paesi, cosiddetti evoluti, milioni di persone soffrono di sovrappeso per un’alimentazione eccessiva, scorretta e frutto di un sistema agroalimentare altamente inquinante).
Secondo le stime fatte a livello mondiale da alcuni studiosi, il nostro pianeta, considerando la SAU (Superficie Agricola Utile) sarebbe in grado di nutrire una popolazione di oltre 10 miliardi di persone, quella che popolerà il pianeta nel 2050 e che tale numero potrebbe aumentare se i sistemi agroecologici fossero diffusi maggiormente.
Per fare questo serve però una profonda trasformazione, come ricorda un gruppo di esperti nel recente rapporto della FAO sull’agroecologia e su altri approcci innovativi.
Chiariamo subito che il problema della fame nel mondo non è dovuto all’insufficiente produzione alimentare, che non riesce a star dietro alla costante crescita demografica.
“La fame è causata dal fatto che grandi imperi detengono l’80% dei terreni del mondo e sono tutte monocolture. Questo limita molto la varietà di cibo che possiamo mangiare e rende l’agricoltura sempre più vulnerabile al cambiamento climatico. In più noi mangiamo solo il 30% di questo cibo, la metà dei raccolti alimentano il bestiame e l’industria dei biocarburanti: 89 milioni di ettari di terreno in Africa sono stati comprati per produrli. Perciò abbiamo bisogno di un paradigma nuovo, che si basi su una nuova etica per dare accesso alla terra agli agricoltori di piccola scala e creare un’agricoltura non più dipendente dai carboni fossili”. Tale affermazione arriva da varie voci autorevoli, tra cui Miguel Altieri, docente all’Università della California, durante un convegno sull’agroecologia svoltosi a Terra Madre Salone del Gusto al quale sono intervenuti anche Anuradha Mittal, fondatrice dell’Oakland Institute, e Yacouba Sawadogo, agricoltore in Burkina Faso.
Ricordiamo che l’agroecologia non solo applica i principi ecologici alla produzione di alimenti, capovolgendo il sistema dell’agrobusiness; in questo modo si prende cura delle risorse naturali e valorizza la biodiversità: in pratica ci offre delle buone pratiche per l’agricoltura. Il valore aggiunto dell’agroecologia è l’aspetto politico, il fatto che si pone l’obiettivo di sfamare i poveri e si basa sulle conoscenze di chi lavora i campi da secoli, di chi con il 20% dei terreni produce l’89% del cibo che mangiamo.
La fame del mondo nasce quindi dall’implementazione di politiche agricole, molto diffuse purtroppo anche in Europa, dove pochi grandi proprietari terrieri sono i beneficiari dei grandi proventi della PAC (Politica Agricola Comune) e sono a loro volta anche coloro che con i sistemi agricoli intensivi, come ci ha ricordato Jeremy Rifkin qualche anno fa, producono con un sistema termodinamico altamente inefficiente (pari a circa 1/10 di quello agroecologico) sfruttando così le risorse della Terra, producendo grandi emissioni e, ciliegina sulla torta, creando i grandi squilibri sociali, a partire dai sistemi di caporalato per finire al Land grabbing, cioè all’accaparramento delle terre per vari fini di agrobusiness.
Il mondo soffre per questi soprusi, nati dagli interessi personali di chi ha in mano le redini dell’economia: “il movimento agroecologico si contrappone ai furti della terra occupandola ed eleggendo governi che promuovono una riforma fondiaria che dia la proprietà privata ai contadini” – spiega Altieri -. Anche il biologico, l’equosolidale e Slow Food lavorano in questo senso ma lo fanno nelle poche finestre lasciate aperte dal capitalismo, rimanendone comunque soggiogati. Bisogna eliminare il capitalismo creando mercati solidali in cui si fanno accordi diretti fra produttori e consumatori: il capitalismo non funziona, non si può risolvere un problema con la stessa mentalità con cui è stato creato, per parafrasare la nota frase di A. Einstein.
Senza andare lontano dall’Italia basti pensare all’esperienza della Sicilia, dove già dal 2021 è in vigore la L.R. 21 del 29 luglio 2021: la legge sull’agroecologia della Regione siciliana (ma che al momento in cui scriviamo attende la firma dell’Assessore su una proposta di Decreto attuativo pronta da oltre un anno).
Orbene le stime e gli studi fatti e riportati su alcune qualificate riviste nazionali ci dicono che solo se si applicasse il 10 % dei sistemi agroecologici alle aziende siciliane si avrebbero risultati incredibili.
Tra questi, ai sensi dell’art. 7 della stessa legge, si pianterebbero oltre 5.500.000 di nuovi alberi di specie autoctone siciliane, sia frutticole che forestali, con grandi ricadute e benefici non solo in campo produttivo ma anche in quello ecologico.
Basti pensare che, mediamente, un albero adulto immagazzina circa 25 kg di CO2 all’anno, o 1 tonnellata di CO2 all’anno per 40 alberi adulti.
Orbene, in media, si stima che una persona emetta circa 4,8 tonnellate di CO2 equivalente all’anno. Questa stima tiene conto delle emissioni di CO2 dirette (ad esempio, l’uso di carburanti per auto o riscaldamento) e delle emissioni indirette associate al consumo di prodotti e servizi, inclusi gli alimenti.
Ciò significa che dovrebbero essere piantati ogni anno circa 192 alberi per compensare le emissioni di CO2 di un singolo siciliano.
Ciò significa che se solo il 10 % delle aziende transitasse verso l’agroecologia, compenseremmo circa le emissioni di poco meno di 3.000 cittadini siciliani, l’equivalente di un piccolo Comune.
Ma il discorso che qui viene presentato sinteticamente va molto oltre; intanto perché l’incremento di biodiversità, che viene richiesto nei sistemi agroecologici, aumenterebbe l’efficienza dei sistemi dissipativi energetici agricoli (implementando in forma esponenziale l’efficienza fotosintetica e l’assorbimento della CO2), inoltre la presenza della copertura arborea aumenterebbe il sequestro di carbone del suolo ma, in più, essendo richiesta una circolarità dei processi produttivi, molte emissioni legate alla produzioni di fertilizzanti, insetticidi, diserbanti, ecc. verrebbero ad essere notevolmente diminuite, facendo lievitare l’efficienza del sistema e quindi il bilancio assorbimento/emissione di CO2.

Mercati locali e GAS

Il tutto non finisce qui; come riportato in altro articolo, e anche qui confermato da studi pubblicati su riviste nazionali, se solo il 10 % delle aziende agricole utilizzasse le modalità di produzione di energie rinnovabili, previste nella L.R.21/2021 (piccole produzioni di energia elettrica da fonti rinnovabili in regime fiscale agricolo e a consumo di suolo zero) si andrebbe a coprire circa l’83 % del fabbisogno energetico siciliano. Qui ovviamente comprendiamo che il bilancio assorbimento/emissione di CO2 andrebbe nettamente in positivo, permettendo ancor prima del 2030 di raggiungere la cosiddetta neutralità.
Questo ci fa capire che l’agroecologia è un paradigma molto più complesso (pur nella necessaria sintesi di questo articolo): si tratta di un tipo di agricoltura che ingloba vari aspetti. Oltre a promuovere la produzione ecologica, favorisce l’integrazione sociale, politica ed economica dei contadini, e tra contadini e società urbana. Non solo ma gli effetti dell’agroecologia hanno, nel medio periodo, ricadute sulla pianificazione urbanistica dei nostri territori, ricreando quelle condizioni necessarie ad un decentramento delle popolazioni ed invertendo anni di svuotamento delle aree interne ed accrescimento impressionante dei grandi centri urbani che, come è noto, sono altamente energivori e palesemente assestati su bilanci assorbimento/emissione CO2 negativi.
L’agroecologia è l’approccio ideale perché combina le nuove tecnologie, i principi della coltivazione ecologica e l’esperienza dei contadini, un elemento centrale nella cooperazione allo sviluppo. La transizione a questo nuovo sistema agricolo deve partire dalle piccole aziende familiari. Stando a vari rapporti internazionali, i circa 500 milioni di piccoli contadini potrebbero raddoppiare la loro produzione che, stando alle stime, sfama già oggi circa il 70 per cento della popolazione in Asia e Africa sub sahariana e che, applicato nel nostro Paese, ci riporterebbe ad una solidità alimentare ed ecologica senza precedenti.
In poche parole è sempre più evidente (vedi ultimo report FAO) come “Le monoculture hanno raggiunto il massimo della loro produttività, dobbiamo quindi puntare sulle famiglie di piccoli agricoltori per aumentare la quantità di cibo disponibile”.
Il paradosso è che il 75 per cento delle persone che patiscono la fame vive in campagna e si sostiene in larga misura con l’agricoltura. E anche qui la risposta arriva dall’agroecologia: un approccio multifunzionale che promuove processi democratici volti a favorire la sovranità alimentare, ossia il controllo della produzione, della terra, dell’acqua e delle risorse genetiche da parte delle comunità locali.
Per questo motivo è importante, per esempio, che i contadini creino delle cooperative per vendere i loro prodotti al mercato locale, senza intermediari, lottando così contro la povertà o promuovendo, come contemplato dalla stessa L.R. 21/2021, la creazione di GAS (Gruppi di Acquisto Solidale).
Eppure ancor oggi, ascoltando gran parte della politica regionale, nazionale ed internazionale questa, sotto la spinta di una visione distorta della realtà, parla di mercati, spesso senza sapere cosa sono realmente queste entità, di eccellenze della produzione, senza oggettivare questo concetto, in termini ecologici, salutistici e sociali, ma avendo come unico riferimento quel dannato (perdonatemi il termine) unico parametro della bilancia dei pagamenti e della PLV, che sono un vecchio retaggio dell’economia lineare non più proponibile.
Si tratta di una visione oramai morta e sepolta, sentenziata non solo da Agenda 2030 e dalla FAO ma suffragata, soprattutto, da studi, ricerche, analisi e ricercatori di tutto il mondo.
La questione è che gran parte della politica, così come oggi la vediamo e conosciamo, nasce da spinte diverse, di natura non correlata alle reali esigenze eco sociali e, pertanto, destinata a morire.
A noi rimane l’obbligo imperativo di seminare questo nuovo germe da cui nascerà il pianeta e la società che verrà, senza dimenticarci che il tempo è poco e che la Natura il conto ce lo sta già presentando.

Guido Bissanti




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