Come fare la birra in casa
Come fare la birra in casa
Prima di passare alla guida perla preparazione della birra in casa è bene sapere che dal 1995 (Decreto Legislativo n. 504 del 26/10/95) in Italia è possibile produrre birra tra le mura domestiche purché non sia oggetto di vendita. La norma non pone limiti quantitativi ma il divieto di commercializzazione. Ciò significa che i quantitativi prodotti possono essere solo per autoconsumo. Adesso vedremo come fare la birra in casa e tutti i passaggi necessari per arrivare a questo interessante obiettivo.
Intanto partiamo dalla materia prima. Questi sono essenzialmente cereali, ed in particolare l’orzo, che sottoposti a processi di maltazione diversi in base alla tipologia del prodotto da realizzare, sono pronti poi per finire nel processo che conduce alla produzione della birra.
Per fare questo bisogna estrarre praticamente gli zuccheri contenuti all’interno dei chicchi ottenendo, infine, un mosto.
Successivamente all’inoculo del lievito, all’interno del mosto, ha inizio una fase più prettamente di gestione e controllo dei tempi e delle temperature che nelle varie fasi della fermentazione guideranno i lieviti stessi nel loro lavoro di trasformazione di quegli zuccheri del mosto in diversi sottoprodotti del suo metabolismo, ovvero alcool, anidride carbonica ed esteri (aromi).
La prima fase è quella della molitura. Così prima di arrivare alla fase più propria di ammostamento, occorre frantumare fisicamente i chicchi (di cereali o di orzo) per permettere all’acqua di prendere in soluzione questi amidi, permettendo così il resto del processo. I cereali vanno quindi spaccati e moliti. Questa è una delle fasi da cui dipendono molti caratteri della futura birra. infatti dalla grana dei frammenti dipendono alcuni indici come l’efficienza di ammostamento e l’efficienza globale, che esprimono la quantità di zuccheri estratti in relazione al totale di quelli contenuti potenzialmente nei chicchi.
A questo punto, moliti i cereali, si passa all’ammostamento. Nella miscelazione tra questi cereali con l’acqua, si permette agli amidi di andare in soluzione. A questo punto si avvia il processo vero e proprio di ammostamento che altro non è che la riduzione degli amidi a zuccheri più semplici (e quindi fermentabili). In generale è l’orzo quello che già contiene una composizione enzimatica migliore per il processo di ammostamento che deve avvenire ad una certa temperatura.
In sostanza si tratta di miscelare il nostro cereale macinato con acqua calda in modo tale che all’interno del chicco gli enzimi tramutino gli amidi in zuccheri.
Prima di questa fase solo il 15-20% del malto è solubile, grazie all’ammostamento arriviamo ad una percentuale del 65-80%.
I principali metodi per eseguire l’ammostamento sono tre:
– infusione (anche detta infusione multistep): la nostra miscela di acqua e cereali viene portata a diverse temperature e con diversi intervalli di tempo tramite riscaldamento diretto della miscela stessa (il classico pentolone sul fuoco). Questo con tutta probabilità è il metodo più usato dagli homebrewer;
– infusione inglese: in un recipiente che abbia una scarsa dispersione del calore viene posto il cereale e gli viene aggiunta, a più riprese, acqua a determinate temperature in modo da portare la temperatura della miscela e il rapporto grani/acqua alla quota desiderata. Di norma questo tipo di infusione si applica a ricette che non prevedono l’utilizzo di cereali non maltati ;
– decozione: parte della miscela di acqua e grani viene posto in una pentola secondaria e portato ad ebollizione. Viene poi riunito alla miscela principale innalzandone la temperatura. Ovviamente per determinare la quantità di miscela che occorre prelevare e portare ad ebollizione per arrivare alla temperatura desiderata è necessario eseguire preventivamente dei calcoli.
Lo scopo principale dell’ammostamento è quello di rompere le proteine e gli amidi che non sono stati trasformati durante il processo di maltazione. Questo lavoro viene fatto da vari gruppi di enzimi che degradano differenti substrati se attivati a determinate temperature.
Con malti chiari questa degradazione enzimatica inizia con l’acid rest (pausa acido), dove le fitasi rompono la fitina in fosfato di calcio o di magnesio e acido fitico. Questo aiuta l’acidificazione del mosto quando l’acqua ha un basso contenuto di calcio e i grani molto tostati non sono inclusi nella ricetta. Questa pausa avviene a temperature tra i 35 C° e i 49 C°. Un altro gruppo di enzimi attivi in questo range sono le b-glucanasi, che rompono la emicellulosa e le gomme nelle pareti cellulari di malti non modificati. Alcune aggiunte, in particolare il riso, hanno alti livelli di queste sostanze, e si possono riscontrare problemi, come un mosto stuccoso, se non vengono degradati in sostanze più semplici dalle b-glucanasi.
Per molti malti l’ammostamento inizia con il protein rest (pausa proteine), che avviene solitamente a temperature comprese tra i 46 C° e i 52 C°. Questo processo inizia con le proteasi, che rompono le molecole pesanti delle proteine in frazioni più piccole come i polipeptidi. Questi polipeptidi sono inoltre degradati, da enzimi peptidici, in peptidi e amminoacidi, che sono essenziali per la crescita corretta del lievito. Le proteine di peso molecolare 17,000 fino a 150,000, devono essere ridotte in polipeptidi di peso 500-12,000 per una buona formazione della schiuma, e alcuni vengono ulteriormente ridotti a 400-1500 per una buona nutrizione del lievito.
Il processo enzimatico finale converte gli amidi in destrine e zuccheri fermentabili. Gli amidi devono essere prima gelatinizzati, e questo avviene a temperature di 54-65 C° per il malto. La gelatinizzazione per grani non trattati, come mais, avviene a temperature maggiori, quindi questi chicchi devono venir bolliti oppure fatti in fiocchi prima di aggiungerli al mosto. La rottura degli amidi è portata avanti dall’azione combinata degli enzimi a-amilasi e b-amilasi durante la pausa di saccarificazione. Questi enzimi rompono i legami 1-6 degli amidi riducendo la complessità delle molecole. Gli enzimi diastatici, o amilasi, lavorano in tandem, con gli enzimi b nel dividere le unità di maltosio dalla testa riducente e gli a rompono i legami 1-4 casualmente. Temperature inferiori ai 65 C° favoriscono la b-amilasi, producendo un mosto più fermentabile, mentre temperature superiori a 68 C° favoriscono la amilasi, producendo un mosto più destrinico. Lo zucchero prodotto più semplice è un monosaccaride, cioè possiede solo una base zuccherina nella sua molecola. I monosaccaridi nel mosto includono glucosio, fruttosio, mannosio e galattosio. I disaccaridi sono fatti di due monosaccaridi uniti, e includono maltosio, isomaltosio, saccarosio, mellibosio e lattosio. I trisaccaridi includono il maltotriosio, che è lentamente fermentabile e sostiene il lievito durante la lagerizzazione. Gli oligosaccaridi, costruiti da catene di glucosio (diversi monosaccaridi), sono solubili in acqua e vengono chiamate destrine. La concentrazione relativa di questi zuccheri è determinata dal tipo di malto e se è stata favorita la b-amilasi o la a-amilasi.
Dopo aver completato questa fase, molti birrai terminano alzando la temperatura del mosto a 75 C° per vari minuti. Questo assicura la disattivazione dell’amilasi e la conversione di destrine in zuccheri fermentabili. Inoltre riduce la viscosità del mosto, facilitando il filtraggio. Comunque sono tutti d’accordo che le migliori condizioni di estrazione avvengono a queste temperature.
Chiaramente una tecnica non vale l’altra ma incide sul “tipo” di birra che otterremo.
Una volta ottenuto questo mosto zuccherino, bisogna separare la parte liquida da quella solida. Bisogna pertanto filtrarlo delicatamente. È un’operazione che, se lenta e accurata, può avere effetti positivi sulla qualità del mosto e sulla sua limpidezza. A seconda delle attrezzature e dei metodi produttivi, può rendersi necessario un ulteriore passaggio (detto sparging) o lavaggio delle trebbie. questo si basa sul fatto che, con le diluizioni classiche, non si riesce ad estrarre tutta la quantità di zuccheri dalle trebbie in un’unica filtrazione; per questo motivo si rende necessario, aggiungere a queste un’ulteriore quantità di acqua per far dissolvere più facilmente questi zuccheri ancora intrappolati nelle trebbie e portarli, così, insieme al primo mosto per raggiungere i valori designati.
A questo punto si arriva alla fase della bollitura. Questa è quell’operazione che permette di sterilizzare il mosto e renderlo più concentrato, consentendo una evaporazione di una parte d’acqua. Contestualmente alla bollitura del mosto in senso stretto, una delle azioni più importanti compiute in questa fase è la luppolatura. L’aggiunta di questo ingrediente mentre il mosto bolle è fondamentale: la bollitura permette ai composti contenuti nel luppolo di dissolversi ed essere trasformati, attivando processi chimici che provocano la formazione di composti responsabili del gusto amaro. La luppolatura è un’operazione che consente di bilanciare il sapore amaro necessario a contrastare i dolci aromi derivanti dai cereali. Ovviamente minore sarà il tempo di bollitura del luppolo con il mosto, minore sarà l’amaro che estrarremo. Per fare questa operazione si consiglia di aggiungere gradualmente il luppolo verso i minuti finali di bollitura per passare dal sapore tipicamente amaricante ad uno più aromatico. Questo processo è ovviamente di sapienza artigianale dei mastri birrai e caratterizza i vari tipi di birra che possiamo ottenere.
Operato questo processo, prima di aggiungere il lievito, bisogna operare il raffreddamento (altrimenti devitalizzeremmo i lieviti). È un processo in cui le precauzioni igieniche devono essere notevoli, in quanto fino a quando il mosto è bollente la sterilizzazione è assicurata, poi man mano che si raffredda possono intervenire contaminazioni varie. infatti quando si raffredda il mosto fino a circa 15 – 20 °C si entra nel range di lavoro di lieviti e batteri, tutti presenti sia nell’aria che su utensili ed oggetti che entrano in contatto con esso.
Prima della fase dell’inoculo dobbiamo essere certi della sanificazione del recipiente (fermentatore) che ospiterà il mosto raffreddato. In questa fase è necessario ossigenare la massa (o con agitazione meccanica oppure per caduta) facendola sbattere sul fondo del fermentatore e così fargli includere ossigeno, necessario per la prima fase di moltiplicazione del lievito, che verrà inserito a fine trasferimento. Il fermentatore dovrà essere chiuso ermeticamente, con il suo tappo, lasciando un gorgogliatore per la fuoriuscita di anidride carbonica ma non consentire l’entrata di aria dall’esterno.
La fase della fermentazione inizia in un lasso di tempo che va da poche ore a qualche giorno (dipende anche dal tipo di lieviti). All’inizio (prima settimana) si ha la fase tumultuosa (o fermentazione primaria) con trasformazione di zuccheri fermentabili in anidride carbonica, oltre che di alcool ed aromi. Qui è fondamentale la gestione della temperatura di fermentazione ed il controllo di questa che determina l’andamento qualitativo e quantitativo del lavoro del lievito. Superata questa fase il gorgogliamento assume una cadenza sempre più blanda, in quanto la fermentazione diviene secondaria. Questo periodo (determinato sempre dal tipo di lievito) varia da un paio di settimane ad un paio di mesi circa.
Trascorso questo periodo siamo pronti per il confezionamento. Si può passare a questa operazione se si nota che la densità del mosto fermentato non varia più nonostante il passare dei giorni. Anche qui i contenitori (bottiglie o eventuali fustini) devono essere assolutamente privi di eventuali impurità batteriche o di altri organismi che andrebbero a danneggiare la birra.
Spesso è opportuno trasferire il mosto in un altro fermentatore pulito per escluderne il fondo, dove si sono depositati lieviti esausti e proteine varie.
Prima del confezionamento, il travaso può essere necessario, soprattutto perché nella bottiglia o nel fusto si vuole ricreare una adeguata gassatura grazie ad una seconda fermentazione, chiamata rifermentazione. La rifermentazione si ottiene aggiungendo dello zucchero, che sarà metabolizzato dai lieviti rimasti inevitabilmente in sospensione nella birra e che produrranno ulteriore aliquota di anidride carbonica. Per questo, una volta tappati bottiglie e fusti, bisognerà assicurare ad essi una opportuna temperatura, molto vicina a quella della prima fermentazione. Il tempo della rifermentazione è normalmente di un paio di settimane ma è necessaria un afse di maturazione della birra che dura altre settimane. Questo tempo varia da poche settimane per birre molto leggere e/o molto luppolate a molte settimane per birre più complesse e più alcoliche; questo permette ai lieviti di rimuovere anche alcune imperfezioni.