Distruzione Habitat, Desertificazione e Pandemie
Distruzione Habitat, Desertificazione e Pandemie
La vicenda del Coronavirus – COVID 19, non poteva ovviamente non scuotere il mondo scientifico, gli ambienti legati ai movimenti ecologisti ed, ovviamente, l’intera umanità.
Negli ultimi tempi varie teorie sono state proposte per spiegare questo fenomeno di proporzioni mondiali, tant’è che le ipotesi già da tempo formulate da vari scienziati ed esperti del settore, stanno trovando una progressiva convergenza per spiegare gli scenari che si vanno prefigurando ed i fattori scatenanti.
In questo contributo riporto anche alcuni spunti di un’interessante articolo apparso sulla rivista Scientific American, una delle più antiche e seguite negli Stati Uniti, su un’analisi operata dall’Ensia.
L’Ensia – Institute on the Environment, è un istituto multidisciplinare che ha sede presso l’ Università del Minnesota, e che supporta la ricerca interdisciplinare, sviluppa leader e costruisce partenariati intersettoriali volti a plasmare soluzioni alle sfide nelle interferenze tra società e ambiente.
Sono state così raccolti una serie di report e di dati di vari ricercatori, per comprendere se ci sono dei legami tra le pandemie, che oramai con cadenze sempre più brevi si presentano a livello mondiale, e le alterazioni portate dall’umanità sull’ambiente.
Nella presentazione di questo scenario ovviamente riportiamo alcuni fatti che ci aiutino sensibilmente alla comprensione poi delle possibili soluzioni.
Partiamo dai territori attorno al fiume Ivindo, nel profondo della grande foresta Minkebe, nel nord del Gabon, dove le popolazioni locali sono abituate a occasionali attacchi di malattie come la malaria, la febbre gialla, la malattia del sonno ed altre e che normalmente superano con pochi danni.
Improvvisamente però nel gennaio 1996, l’Ebola, un virus mortale a malapena noto agli umani, si riversò inaspettatamente fuori dalla foresta in un’ondata di piccole epidemie. La malattia uccise 21 dei 37 abitanti del villaggio che sarebbero stati infettati, tra cui un numero che aveva trasportato, scuoiato o mangiato uno scimpanzé dalla foresta vicina.
Dobbiamo partire da qui per capire il motivo per cui malattie mortali nuove per l’uomo stavano emergendo da “punti caldi” della biodiversità, come le foreste pluviali tropicali o i mercati dove c’è il commercio di carni provenienti da animali selvaggi, nelle città africane e asiatiche.
In poche parole, dopo che alcuni ricercatori hanno interrogato gli abitanti del villaggio, questi hanno riferito di come i bambini erano andati nella foresta con dei cani che avevano ucciso uno scimpanzé. Dissero che chiunque aveva cucinato o mangiato aveva avuto una terribile febbre nel giro di poche ore. Alcuni sono morti immediatamente, mentre altri sono stati portati lungo il fiume in ospedale. Qualche altro si riprese.
Ma la testimonianza più sconvolgente, che ci fa capire come anche le antiche tradizioni siano state stravolte, è venuta dagli anziani i quali affermarono che “Amavamo la foresta, ora la temiamo”. Qualcosa era cambiato.
Come molte popolazioni o tribù degli angoli più sperduti del nostro Pianeta, che erano abituati ad una convivenza “pacifica” con i loro habitat, adesso non potevano più sostenere la stessa cosa.
La convinzione che le foreste tropicali e gli ambienti naturali intatti brulicanti di fauna esotica minacciassero gli esseri umani ospitando virus e agenti patogeni, che portano a nuove malattie negli esseri umani come l’Ebola, l’HIV e la Dengue, era di appartenenza dell’opinione occidentale.
Oggi però un certo numero di ricercatori pensa che la realtà sia diversa.
È oramai certo, per quello che si dimostrerà anche più oltre in questo contributo, che sia invece la distruzione della biodiversità (con i suoi habitat) da parte dell’umanità a creare le condizioni per nuovi virus e malattie come il COVID-19, la malattia virale emersa in Cina a dicembre 2019.
Gli studi dei ricercatori, che devono però mettere insiemi virologi, matematici, ecologi e così via, tende a dimostrare che c’è bisogno di una nuova disciplina, “la salute planetaria”, che si concentra sulle connessioni sempre più visibili tra il benessere degli esseri umani, altri esseri viventi e interi ecosistemi.
Il territorio dove comparse l’Ebola di fatto era stato manomesso da tempo dalle attività umane con costruzione di strade, interruzioni di habitat, e così via.
Lo stesso David Quammen, autore di Spillover: Animal Infects and the Next Pandemic, ha recentemente scritto nel Nuovo York Times. “Tagliamo gli alberi; uccidiamo gli animali o li mettiamo in gabbia e li mandiamo ai mercati. Distruggiamo gli ecosistemi e liberiamo i virus dai loro ospiti naturali. Quando ciò accade, hanno bisogno di un nuovo host. Spesso questo è l’uomo.”
Inoltre le varie ricerche a livello mondiale, con i loro dati statistici, suggeriscono che altre malattie infettive come Ebola, SARS, influenza aviaria e ora COVID-19, sono in aumento. I patogeni si stanno spostando dagli animali agli umani e molti sono ora in grado di diffondersi rapidamente in nuovi luoghi.
Così tra queste infezioni il recente COVID-19, emerso nel 2019 a Wuhan, in Cina, sono nuovi agli umani e si stanno diffondendo a livello globale.
Sono poi i dati di altre malattie infettive a manifestarsi dalla seconda metà del secolo scorso a confermare questa tendenza.
Nel 2008, Katherine Elizabeth Jones, dell’University College di Londra e della Zoological Society di Londra, insieme ad un team di ricercatori, hanno identificato 335 malattie emerse tra il 1960 e il 2004, di cui almeno il 60% circa sono transitate da animali selvaggi.
La stessa Jones, a seguito delle sue verifiche, ha potuto appurare come queste malattie zoonotiche sono legate ai cambiamenti ambientali e al comportamento umano. L’interruzione di foreste incontaminate guidate da disboscamento, estrazione mineraria, costruzione di strade attraverso luoghi remoti, rapida urbanizzazione e crescita della popolazione sta portando le persone a un contatto più stretto con specie animali che non avrebbero mai potuto essere vicine prima.
Secondo la Jones, oltre allo scotto che stiamo pagando per lo “sviluppo economico umano”, per il “disturbo” di interi habitat, per millenni rimasti inalterati, è emerso che “I sistemi più semplici ottengono un effetto di amplificazione. Distruggi i paesaggi e le specie che ti rimangono sono quelle da cui gli umani ottengono le malattie”. Quindi diminuzione di biodiversità e aumento delle pandemie è un binomio direttamente proporzionale.
A questo vanno aggiunte le considerazioni dell’epidemiologo Fevre E.M. sul criterio che la densa urbanizzazione ha creato nuovi habitat, dove specie che prima vivevano nei loro ambienti si stanno forzatamente adattando (come pipistrelli, roditori, uccelli, ecc.) divenendo nuova fonte di veicolazione.
Valutazione rafforzata dall’ecologo delle malattie D. H. Gillespie, professore associato presso il Dipartimento di Scienze Ambientali della Emory University nella città di Atlanta in Georgia, il quale afferma che il restringimento degli habitat naturali e il cambiamento del comportamento si aggiungano ai rischi di malattie che si riversano dagli animali agli umani.
A tutto ciò sarebbe anche superfluo aggiungere quanto affermato nel libro “Spillover. L’evoluzione delle pandemie” dove vengono spiegati nel dettaglio tali meccanismi ed in cui è evidente come la manomissione degli ecosistemi comporterà sempre maggiori squilibri e quindi costi, soprattutto sociali.
I casi infatti di proliferazione di nuove trasmissioni di patogeni sono strettamente correlati alle aree prossime alle distruzioni degli habitat ed alla nuova condizione di stress non solo delle specie vegetali ma soprattutto della fauna selvatica.
L’interferenza umana sugli ecosistemi sta generando, secondo il virologo D. H. Gillespie, le condizioni per la diffusione delle malattie riducendo le barriere naturali tra gli animali ospiti del virus – in cui il virus circola naturalmente – e l’uomo.
Siamo di fronte all’orizzonte di una nuova disciplina che, gioco forza, debba mettere a sistema ogni dato, con azione e reazione, per dover riconvertire il mondo verso l’obiettivo di una “salute planetaria”.
Tesi sostenuta con la forza di dati e ricerche dal Prof. Richard Ostfeld, illustre scienziato senior presso il Cary Institute of Ecosystem Studies di Millbrook, New York. Secondo lo scienziato “La ricerca sulla salute umana considera raramente gli ecosistemi naturali circostanti”. Per questo motivo insieme ad altri ricercatori sta sviluppando la disciplina emergente della salute planetaria, che esamina i legami tra la salute umana e quella dell’ecosistema.
A tutto questo bisogna aggiungere ovviamente come il proliferare di mercati senza regole sanitarie, dove avviene il contatto tra specie selvatiche ed esotiche, come il caso del coronavirus SARS-CoV-2, probabilmente iniziata intorno alla fine di dicembre 2019 nella città di Wuhan, in Cina, ne sia una ulteriore conferma. In questi mercati gli animali vengono macellati, tagliati e venduti sul posto.
Allo stesso modo, i mercati urbani nell’Africa occidentale e centrale vendono scimmie, pipistrelli, ratti e dozzine di specie di uccelli, mammiferi, insetti e roditori macellati e venduti vicino a discariche di rifiuti aperte e senza drenaggio.
Ricordiamoci però che questi mercati sono fonti essenziali di cibo per centinaia di milioni di persone in tutto il mondo ed i divieti costringono spesso i commercianti ad attività sotterranee ben più carenti dal punto di vista igienico.
A questo bisogna poi aggiungere il fiorente mercato degli animali selvaggi che ovviamente viene fatto fuori da ogni Principio di Precauzione.
Tutto questo ci fa ritornare al principio sostenuto oramai da molti ricercatori: e cioè che il raggiungimento della Salute Planetaria vada condotto con il coordinamento di discipline apparentemente senza legame tra loro.
Su tutto si erge ovviamente la necessità di un livello di Governo dell’Economia che non si muova sul concetto della rendita individuale ma della redditività di questa all’interno della Salute Planetaria.
Ad esempio non possiamo produrre cibo alterando interi ecosistemi ed una volta alterati questi e le biocenosi pensare di risolvere il problema con la peggiore delle soluzioni: l’uso di pesticidi.
Non possiamo pensare di aumentare le rese produttive agricole andando oltre al rendimento energetico del delicato equilibrio tra suolo (con la sua biodiversità microbiologica) e soprassuolo. Tutto questo richiede la fuoriuscita dal modello termodinamico dell’ecosistema naturale (che è sostanzialmente chiuso) verso un modello aperto che notoriamente ha rendimenti energetici molto più bassi.
L’agricoltura, l’industria, il commercio, gli scambi commerciali e così via si sono mossi sulla base di indici finanziari e non sulla base di indici legati all’energia dissipativa propria di tutti i sistemi ecologici.
Tutto questo richiede, ovviamente, la necessità di un nuovo approccio culturale che deve muoversi all’unisono con un nuovo modello epistemologico, come ho enunciato nella pubblicazione scientifica: “Piano delle Esperienze e livelli di benessere”, senza il quale concetti come lotta alla desertificazione, efficienza energetica, sviluppo sostenibile o altre definizioni “ad effetto” divengono vuote e non produttive per tempi indefiniti.
Che cosa fare allora?
Lo spunto ci viene anche, ma non solo, da Agenda 2030, quell’impegnativo programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo sostenibile (Sustainable Development Goals o, in forma abbreviata, SDG) costituito da 17 obiettivi.
In questo programma gli obiettivi generali, sebbene mirino a raggiungere ciascuno dei target specifici, sono strettamente collegati tra loro. Il numero totale annovera 169 target. Come sappiamo essi mirano a risolvere un’ampia gamma di problematiche riguardanti lo sviluppo economico e sociale, quali la povertà, la fame, la salute, l’istruzione, il cambiamento climatico, l’uguaglianza di genere, l’acqua, i servizi igienico-sanitari, l’energia, l’urbanizzazione, l’ambiente e l’uguaglianza sociale.
Evidentemente bisogna procedere per gradi, partendo da una nuova Visione della Realtà che oggi assume importanza strategica e di primo piano.
Bisogna spiegare a Politici, Burocrati, Economisti e così via che gran parte dell’impalcatura su cui si è retta la cosiddetta “Civiltà Moderna” è in antitesi con quelli che amo definire “Codici della Natura”.
Non solo, una volta spiegata tale questione con schemi e grafici comprensibili e digeribili da tutti (altrimenti facciamo accademia), bisogna far comprendere che fuori dai Codici non c’è Storia Futura.
A questa azione divulgativa ed informativa dovranno aggiungersi le amplificazioni provenienti dai feedback di questa attività prioritaria.
Parallelamente vanno elaborati scenari ed ipotesi a cui, ovviamente, deve seguire anche un’azione di monitoraggio politico.
Guido Bissanti
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