Grani antichi e moderni: intolleranze, celiachie e pesticidi
Grani antichi e moderni: intolleranze, celiachie e pesticidi
Ho voluto scrivere questo contributo per fare un po’ di chiarezza intorno ad alcuni argomenti di cui si discute tanto ma in cui si fa spesso tanta confusione o, meglio ancora, c’è chi ha l’interesse a crearne tanta.
Intanto partiamo da alcune definizioni.
Si definiscono antichi o tradizionali le cultivar presenti prima della cosiddetta “Rivoluzione Verde”. Quali sono in sintesi le principali differenze tra i grani pre-rivoluzione e quelli post-rivoluzione? analizziamoli:
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- La forza del glutine. Si parte da grani antichi, che hanno un valore W di forza del glutine di 10-50 e si arriva ai moderni che hanno una forza intorno ai 300-400, con tutte le conseguenze che il sistema immunitario, attivato in misura anomala dal glutine, reagisce danneggiando l’intestino ed alcune ghiandole preposte alle funzioni di assimilazione degli alimenti (soprattutto il pancreas). È evidente che la struttura del glutine cambia per venire incontro alle necessità dell’industrializzazione degli alimenti.
- La taglia. I grani pre-rivoluzione sono a taglia alta (diciamo oltre il metro e trenta), mentre i post sono a taglia bassa (molto al di sotto del metro).
- La produttività per ettaro. Attraverso la selezione dei grani moderni si è avuto un aumento (che però si basa moltissimo sul notevole input dei concimi azotati, senza i quali la produzione decade nel giro di pochissimi anni). Quando si parla poi di resa bisogna inserire tutta una serie di parametri di rendimento energetico per cui, volendo fare una sintesi di ciò si può serenamente asserire che i grani moderni hanno rese minori rispetto ai loro antenati.
- La minore variabilità genetica. Le cultivar antiche erano un insieme di genotipi con una biodiversità molto elevata. A seguito della selezione dei grani moderni si è andati verso i grani “in purezza”, fatta di piante tutte geneticamente identiche, con una perdita netta di biodiversità non trascurabile (e molto pericolosa dal punto di vista ecologico). In altre parole è cambiato il concetto di adattamento: mentre una variabilità genetica ampia è in grado di adattarsi ai mutamenti ambientali, una variabilità genetica ridotta richiede un maggior controllo ed intervento dell’uomo con un dispendio energetico a carico dell’Ambiente inestimabile e con una perdita di rendimento pari a 10 volte (cfr. Rifkin J.).
È evidente che a perdita di biodiversità vegetale, corrisponda anche una perdita di biodiversità animale nel territorio. E questo è un valore universalmente (oltre che scientificamente) riconosciuto, che spero nessuno vorrà mettere in dubbio, anche perché è evidente che il grano non è l’unica monocultura ad avere problemi di perdita di biodiversità.
Questa grande perdita di biodiversità, subita negli ultimi decenni è stata dovuta a pratiche di miglioramento genetico, che se anche si sono sempre fatto in passato e molto prima della rivoluzione verde, ottenute con un drastico e sostanziale cambiamento delle modalità di selezione e di induzione delle mutazioni. Durante la rivoluzione verde si arriva perfino all’utilizzo di radiazioni ionizzanti, cosa che oggi per legge non potrebbe essere fatta in Italia né nella maggior parte dei paesi industrializzati. Ma pare che tutto questo sia caduto nel dimenticatoio.
Sul fatto che, secondo alcuni, non esisterebbero grani pre-rivoluzione verde di provenienza certa, possiamo tranquillizzare chi sospetta che sia tutta una questione di marketing: che cultivar siciliane e non, hanno caratteristiche morfologiche così diverse che è molto difficile per esperti del settore confonderle con grani post-rivoluzione.
Per quanto riguarda la celiachia, oramai tutte le società scientifiche internazionali che si occupano di questa patologia sono concordi nell’affermare che stiamo assistendo ad un aumento dell’incidenza, perlomeno nelle popolazioni dei paesi in cui le statistiche sono attendibili. Ricerche scientifiche effettuate con i medesimi strumenti diagnostici su banche di sangue congelato, dimostrano senza alcuna possibilità di dubbio che questo aumento di prevalenza esiste, soprattutto dagli anni ’50 in poi. Le cause possono essere molteplici e di complessa definizione; è certo però che gli affetti da celiachia non possono assumere nessun tipo di glutine, nemmeno grani antichi o antichissimi. Da questo punto di vista non ci sono differenze tra i grani. Questo bisogna dirlo con chiarezza ed i celiaci in genere lo sanno bene limitandosi ad acquistare prodotti certificati gluten free.
Sulla sensibilità al glutine (o al grano) non celiaca, invece il discorso è molto più articolato. È vero che secondo i criteri delle conferenze scientifiche la diagnosi va fatta da un gastroenterologo dopo un challenge con glutine in doppio cieco, ma è altrettanto vero che nella pratica clinica questo test non si fa quasi mai, sia per motivi di costi che di tempi. Pur con tutti questi limiti, ci sono pochi dubbi sul fatto che questa patologia esista (vedasi le conclusioni delle diverse consensus conference di esperti mondiali, tenutesi dal 2011 ad oggi).
Queste sperimentazioni mettono in evidenza che ci sono differenze nelle caratteristiche pro-infiammatorie tra alcuni grani antichi e alcuni moderni. Nessuno studio potrebbe mai mettere a confronto tutti i grani pre-rivoluzione con tutti quelli post, perché sono troppi. Il fatto che siano studi fatti con pochi pazienti (quello di Whittaker con 21 diabetici e due differenti tipi di grano, quello di Valerii con 48 pazienti sensibili al glutine e 4 tipi di grano) si spiega facilmente con i costi elevati dei trial clinici.
I costi così elevati di ricerca non possono essere sostenuti dalle aziende che commercializzano grani pre-rivoluzione, in quanto piccole (o molto piccole) e non possono permetterselo. Ecco perché la Ricerca dovrebbe avere un canale di finanziamento pubblico a tutela non solo della salute dei cittadini ma anche della verità scientifica.
Questa storia sul pilotaggio della Ricerca è tanto reale da non dimenticarsi che tutti i farmaci che acquistiamo in farmacia hanno seguito esattamente questo iter: dall’aspirina agli antibiotici.
Per citare una delle Ricerche finanziate dal pubblico (principalmente dall’Università di Bologna), su un piccolo gruppo molto ben selezionato e seguito di bambini sensibili al glutine, si è osservato che la reintroduzione di grani moderni faceva riapparire i sintomi gastrointestinali in poche ore, mentre la reintroduzione di due diversi grani antichi (quelli che più facilmente le mamme potevano trovare al supermercato) li faceva riapparire in modo più graduale e moderato e solo dopo parecchi giorni, a sottolineare che differenze tra i diversi grani ci sono e si possono osservare clinicamente. Il che significa che c’è tanto lavoro da fare e tanta Ricerca Pubblica da finanziare.
Per quanto riguarda gli antri grandi fattori tanto discussi della moderna agricoltura approfondiamo un po’ l’argomento su azoto, pesticidi e glifosato.
Per quanto riguarda l’azoto mediamente, soprattutto in aree ad alta intensità di coltivazione e di zootecnia l’azoto veicolato in agricoltura ammonta a circa il 38-40%, quello proveniente da allevamenti, il 58-60% da fertilizzanti e il 2-4% da fanghi di depurazione. Quindi anche in aree (vedi ricerca in Emilia Romagna) dove gli allevamenti animali sono molti, la maggior parte dell’azoto non industriale che finisce nelle acque è dovuto ai fertilizzanti. Tale questione è tanto nota alle Amministrazione delle più grandi Regioni italiane che si sono dovuti prendere dei provvedimenti in materia ed altri saranno presi, in maniera sempre più restrittiva in futuro.
Ma lo scenario più raccapricciante è quello legato ai pesticidi. È troppo frequente oramai, anche da parte di molti agricoltori (che spesso non possono conoscere i delicati meccanismi di azione ecologica e biologica di queste molecole) che l’uso di un solo trattamento all’anno con un solo pesticida sul grano in convenzionale sia un fatto di poco conto. Basta sfogliare monografie sul grano edite dalle aziende produttrici di questi prodotti per scoprire l’esistenza di decine e decine di pesticidi pensati in modo specifico per il grano, che molto raramente si utilizzano singolarmente o una sola volta nell’arco del ciclo colturale. Ricordiamo qui che qualunque molecola non naturale (quindi non metabolizzata dagli stessi organismi dell’ecosistema) interferisce consistentemente sulle dinamiche e sugli equilibri ecologici e sulla salubrità dell’ambiente di cui siamo parte.
Ultimo e non per questo meno importante (visto che trovare altri contributi su questo portale), il glifosato.
Anche se fosse vero che in Italia non si usa più il glifosato, oggi il 30% del grano duro che mangiamo nella pasta è di origine nordamericana o canadese, e in questi paesi il clima è più umido e freddo rispetto al nostro meridione ed il glifosato è ampiamente e abbondantemente utilizzato. Molte aziende misurano il glifosato nei grani duri importati e sono ben a conoscenza di questa presenza. È vero che nei prodotti venduti i valori sono sempre entro i limiti di legge, ma è pur vero che sui limiti di legge non c’è mai stato un lavoro scientificamente valido e corretto, per cui la pressione, soprattutto delle multinazionali, non ha mai giovato a mettere in salvaguardia noi, uomini di questo tempo, ultimi tutelati di una perversa catena di interessi.
A compendio di questa breve (e mai esaustiva trattazione) è evidente che, per ritornare sui grani antichi, siccome questi si coltivano prevalentemente in modo biologico, sono macinati a pietra e vengono essiccati a basse temperature, per il consumatore hanno un valore nutrizionale, ecologico e culturale totalmente diverso. Questo è ancora più evidente se si osserva l’intera filiera produttiva: i grani antichi si coltivano esclusivamente in regime di agricoltura biologica o biodinamica, non vengono miscelati con grani nordamericani o dell’est-Europa, vengono macinati quasi esclusivamente a pietra e, nel caso della pasta, vengono essiccati a basse temperature. Queste non sono solo questioni di marketing: i grani antichi rappresentano certamente una nicchia di mercato in crescita, che permette di sostenere costi produttivi più elevati ma costi ecologici, umani ed energetici notevolmente più bassi.
Questa trattazione ci deve far capire come l’agricoltura deve essere affrontata come una questione di ritorno all’antico ma con un approccio realmente moderno ed in una visione olistica completamente diversa.
Per fare tutto questo bisogna aprire un grosso dibattito politico sulla Ricerca che può avere una sola conclusione. Questa deve essere finanziata dallo Stato, asetticamente, senza compartecipazione di “interessi” di parte o distorti e con un unico obiettivo: il benessere umano.
Senza questo grande salto umanistico non solo l’agricoltura ma l’intera umanità rischia quel tentativo di razza pura che abbiamo pagato tanto caro soprattutto con le due guerre mondiali.
Guido Bissanti
Riferimenti Bibliografici:
Rifkin J., (2004), Entropia, Baldini Castoldi Dalai Editore, Milano.
http://www.celiachia.it/Aic/AIC.aspx?SS=351&M=1217#page