La Follia degli Accordi Commerciali
La Follia degli Accordi Commerciali
Molti dei moderni Politici o Economisti sono protesi a creare virtuosismi commerciali che pretendono, per loro affermazione, di incrementare il PIL e quindi la ricchezza di un Paese.
Tali accordi commerciali rispondono (quasi sempre) ad interessi di qualche gruppo economico che, attraverso questi, vede ampliare il suo panorama di vendite e quindi il suo fatturato.
Gli unici che non ci guadagnano, sono quasi sempre i cittadini, che vedono passare sulle proprie teste questi imperativi (io direi imposizioni) vestiti di “liberalizzazione”.
Per di più questi accordi commerciali vedono sempre due fronti: quello imponente (Multinazionale) e quello soccombente che spesso è l’agricoltura.
Fin qui potremmo dire che tutto sommato di scambio commerciale si tratta e quindi di business; ma le cose non vanno come i fautori della liberalizzazione vogliono farci credere.
Non affermiamo nulla di nuovo se diciamo che per ogni chilo di merce trasportata immettiamo nell’ambiente un’aliquota di CO2. Ma quando il trasporto coinvolge merci agricole e/o manufatti che vengono immessi in un’area che già li produce, creiamo un’inutile emissione di CO2 a discapito del Protocollo di Kyoto di cui il Parlamento Europeo è uno dei più attivi fautori e difensori a livello mondiale.
Questa folle corsa al consumismo indiscriminato e cieco, a cui si aggiunge la produzione di prodotti agricoli fuori territorio, o in sistema forzato, (colture protette e serre) sta generando una impronta ecologica* senza precedenti.
Per fare un esempio, la produzione in serra di 1 kg di pomodori rilascia 3,5 kg di CO2eq, rispetto a meno di 0,05 kg della stessa quantità di pomodori prodotta in un campo, una differenza di ben 70 volte. Senza contare che il trasporto aereo di prodotti alimentari (fragole, mele, pomodori, asparagi, zucchine eccetera) da un capo all’altro del pianeta può generare circa 1.700 volte più emissioni di CO2 che un trasporto in camion per 50 km. Impronta EcologicaFino ad alcuni decenni fa, gli alimenti percorrevano brevi tragitti per andare dal produttore al consumatore; oggi, invece, attraversano oceani e continenti. Le stime attuali mostrano come il 98% della produzione agricola fresca italiana sia trasportata a una distanza superiore a 50 km dal luogo di produzione.
L’aumentata mobilità delle merci presenta il suo “zaino ecologico” con un drastico incremento delle emissioni di CO2, oltre che di altri inquinanti. Un chilogrammo di kiwi che arriva dalla Nuova Zelanda percorre circa 18mila km ed emette circa 25 kg di CO2, 1 kg di pesche dal l’Argentina percorre oltre 12mila km ed emette circa 16 kg di CO2. Finalmente sta cominciando a diffondersi il concetto di «cibo a chilometro zero» per sottolineare quanto sia prioritario consumare prodotti di zona e di stagione. E ancora, è importante prediligere prodotti a imballaggio ridotto. Un’altra voce elevata dal punto di vista del l’impatto ambientale è proprio il packaging degli alimenti stimato essere equivalente a 225 kg CO2 pro capite l’anno, soprattutto per alcuni prodotti e per le bevande alcoliche o analcoliche imbottigliate.
Ma se non volessimo nemmeno considerare questa grave situazione c’è un altro prezzo che viene pagato; questo prezzo viene causato da un effetto domino di cui la politica sembra non curarsi:
1. Quando una merce, proveniente da un paese concorrente entra in un altro territorio il primo effetto che si ha è quello dell’abbandono di quella produzione; se siamo nel campo agricolo il risultato finale è spesso l’abbandono delle terre (questo effetto è esponenziale via via che vengono immesse nuove merci dai mercati concorrenziali);
2. Un terreno abbandonato va incontro ad un dissesto strutturale ed ecologico che ingenera una serie di effetti che oggi vanno sotto il nome (poco compreso nella sua vera radice) di dissesto idrogeologico;
3. Ultimo ma forse più raccapricciante; l’abbandono delle terre, e di quelle particolari produzioni, interrompe spesso una millenaria cultura e vocazionalità che generava ricchezza non solo dal punto di vista economico ma soprattutto di salvaguardia e garanzia di un sapere. Quando si perde è molto difficile e complesso ripristinarla (e a niente o poco serve il PSR).
La CO2 che oggi viene immessa nel mondo non ha origini incontrollabili; deriva dalla stupidità (congiunta alla malafede) di troppi uomini di potere. I protocolli di Kyoto e le grandi conferenze intergovernative non servono a nulla se non si comprende che il Pianeta e l’Umanità non sono luoghi e fattori di scambio ma Entità da salvaguardare. Infine voglio citare un estratto di un articolo dell’Economista cileno Max Neef (economia scalza): …”Inoltre dobbiamo avvicinare il consumatore alla produzione. Io vivo bene nel sud del Cile, una zona fantastica, dove abbiamo tutta la tecnologia per l’elaborazione di prodotti latticini di massima qualità. Qualche mese fa stavo facendo colazione in un hotel e mentre prendevo un pacchettino di burro ho scoperto che veniva dalla Nuova Zelanda, non ti sembra assurdo? E perché succedono cose del genere? Perché gli economisti non sanno calcolare i costi reali. Portare burro da un luogo che dista 20.000 chilometri a un luogo che ne produce uno migliore, con il pretesto che sia più economico è una stupidità esorbitante perché non tiene in conto l’impatto che causano questi 20.000 chilometri di trasporto sulla natura. Come se fosse poco, è più economico perché è sovvenzionato. Si tratta di un chiaro caso in cui i prezzi non ci dicono la verità.”…..
Guido Bissanti
* L’impronta ecologica è un indice statistico utilizzato per misurare la richiesta umana nei confronti della natura. Essa mette in relazione il consumo umano di risorse naturali con la capacità della Terra di rigenerarle.