Pianificazione Territoriale; nuove frontiere
Pianificazione Territoriale; nuove frontiere (Regione Siciliana)
Come in tutte le cose della conoscenza vale la legge del continuo cambiamento; per dirla come il re filosofo Marco Aurelio: l’universo è cambiamento, la nostra vita è conseguenza dei nostri Pensieri. Così, anche alcune certezze su cui abbiamo costruito i nostri teoremi, le nostre procedure, possono essere messe in discussione da nuove scoperte o, addirittura, da nuovi procedimenti epistemologici. Possiamo dire che l’unica costante dell’Universo è il cambiamento. Quando all’inizio degli anni ’90, prima con la Consulta e successivamente con la Federazione, ci trovammo ad interagire col Governo di allora sulla legge 15 del 91, e con le sue successive modifiche ed integrazioni, la nascita dello strumento degli Studi Agricolo-Forestali rappresentò un nuovo ambito di lettura del territorio, delle sue dinamicità, del valore del patrimonio agricolo e forestale. Per la prima volta il legislatore, con atto normativo, riconosceva non tanto e solo le competenze di una categoria ma soprattutto la necessità di individuare ed integrare nel processo formativo dei Piani Regolatori la componente agroforestale.
Per dovere di cronaca e di storicità, non fu un parto né semplice nè tanto meno scorrevole; pensate quanto potesse essere scomodo, per alcune dinamiche consolidate del tempo, uno strumento di lettura oggettiva del territorio; uno studio che identificava degli aspetti su cui, la normativa di allora, si era limitata ad enunciati generici senza averli mai definiti secondo criteri tecnici oggettivi. Mi riferisco a quelle sommarie definizioni sui suoli utilizzati per le colture specializzate, irrigue o dotate di infrastrutture ed impianti a supporto dell’attività agricola ed alle fasce di rispetto dei boschi.
Per entrare nella ortodossia di questi due ambiti, definendoli con una buona approssimazione tecnica, ci vollero circa dieci anni. Migliaia di pagine, di relazioni tecniche, di precisazioni, di ore di riunioni, di atti deliberativi e di consultazioni, per poter giungere alla fine all’impianto normativo attuale. Ma come tutte le cose della storia anche la legge urbanistica regionale, costituita come quei pavimenti realizzati da mattoni di differente fattura, mostra oggi tutte le sue rughe e la necessità di un cambio totale ed assoluto di paradigma.
Si avverte la necessità di un Testo Unico ma, soprattutto, dobbiamo rivedere i principi ed i concetti della Pianificazione del territorio; i principi ed i fondamenti su cui nascono gran parte delle discipline di formazione di questo strumento; va rivista la stessa filosofia e la mutualità dei ruoli tra umanità ed ecosistema e le reciproche interferenze tra questi due universi interdipendenti. Come il passaggio dalla fisica newtoniana a quella quantistica così la pianificazione territoriale deve entrare nella dinamica funzionale dei singoli elementi, ecologici ed umani, per poterne prevedere le relative influenze dinamiche.
La mancanza di questa visione ci ha condotti a sistemi urbanistici sempre più concentrati in grandi città e, purtroppo, allo spopolamento e al degrado delle aree interne e dei piccoli centri abitati. La responsabilità è da addebitare ad un’errata lettura della funzionalità degli ecosistemi, sia su vasta scala che di dettaglio. Anche un centro urbanizzato è un ecosistema, che deve comunque rispondere alle leggi della fisica e della termodinamica in particolare. Ogni cellula del territorio risponde a determinati equilibri, senza la conoscenza dei quali la stessa tende a degradarsi, a generare aliquote di entropia crescente, che si manifesta con forme energetiche sempre più povere, sia dal punto di vista ecologico che umano. Si generano così perdita della biodiversità, erosione ecologica, degrado culturale, sociale ed infine: povertà. Se dovessimo definire cosa è la povertà, secondo questa prospettiva: potremmo definirla come la diminuita capacità umana di interagire e convivere con le leggi della Natura.
Tale affermazione può essere applicata a maggior ragione nel settore agricolo e forestale. E qui iniziamo ad osservare i primi paradossi. La legge 71 del 78 ci dice, e la cito testualmente, che: nella formazione degli strumenti urbanistici generali non possono essere destinati ad usi extra agricoli i suoli utilizzati per colture specializzate, irrigue o dotati di infrastrutture ed impianti a supporto dell’attività agricola. La norma pone particolare attenzione ed atti di salvaguardia ad un modello agricolo di tipo specializzato. Orbene, oggi, applicando i bilanci energetici nelle attività agricole, si scopre che l’agricoltura specializzata ha un rendimento pari ad un decimo di quella tradizionale; per intenderci quella antecedente al Trattato di Roma ed alla Rivoluzione verde.
Secondo Jeremy Rifkin questa tendenza è in rapido aumento proprio perché il modello di produzione agricola è fuoriuscito dai canoni dell’efficienza dei sistemi, per rispettare solo necessità di mercato e non ecologiche. Per capire questa affermazione dobbiamo evidenziare due aspetti che si basano sulla funzione delle Aziende Agricole: queste sono sistemi dissipativi. In un’azienda agricola non facciamo altro che attingere, soprattutto alle energie solari ed a quelle del sottosuolo, per trasformarle in energia alimentare. Quando produciamo un pomodoro o una spiga non facciamo altro che accumulare queste energie e renderle fruibili per un processo energetico secondario, che è l’alimentazione umana.
Questo Processo può avvenire in due modi: o secondo Sistemi Termodinamici Chiusi o attraverso Sistemi Termodinamici Aperti. Nel primo caso le energie del processo sono libere di fluire ed essere scambiate, mentre le masse devono muoversi il meno possibile e comunque con brevi spostamenti. Ricordiamo qui che ogni massa (che siano i prodotti agricoli, i concimi, i carburanti e così via) per poter essere spostata ha bisogno di tanta più energia quanto più grande è la percorrenza. Nel secondo caso, cioè nei Sistemi Termodinamici Aperti, che vediamo cerchiati di rosso, sia le masse che le energie sono libere di muoversi senza regole. È evidente che quanto più il nostro sistema di produzione sia del tipo aperto tanto più il rendimento globale del processo sia basso. Oggi gran parte dei sistemi agricoli, soprattutto quelli specializzati dell’occidente, sono del tipo Aperto e quindi a bassissimo rendimento.
Ma c’è un secondo aspetto: il Sistema, per poter rendere al meglio, deve necessariamente aumentare la complessità della propria struttura (secondo un ordine di reciprocità energetica) diminuendo la propria entropia. Il Sistema, in poche parole, deve biodiversificarsi. In Natura si possono pertanto riscontrare modelli di entropia negativa (la cosiddetta neghentropia) che permette ai Sistemi termodinamici chiusi e biodiversificati di avere il più alto rendimento energetico. Questa teoria, che è la base dell’Agroecologia, valse al fisico russo Ilya Prigogine (che è il padre dell’epistemologia della complessità) il premio nobel per la fisica del 1977.
Dall’applicazione di questi concetti si posso ricavare una serie di speculazioni che ci permettono di comprendere una successione di dinamiche altrimenti di complessa osservazione e quindi, di difficile, se non impossibile, soluzione.
La prima speculazione è di ordine territoriale. Tutti i Sistemi: che sia una piccola azienda agricola, un bosco o una città, rispondono a queste leggi; sono tutte strutture dissipative e, dal basso rendimento di queste, nasce il cosiddetto riscaldamento globale. Ogni qualvolta il nostro sistema dissipativo riconverte poco e male le energie che riceve (che in gran parte sono solari) la maggiore energia ricevuta, evidenziata dalle frecce in rosso, rispetto a quella trasformata (rappresentata dalle frecce in verde) da seguito ad una produzione di entropia che è una forma di energia degradata, non più trasformabile e che provoca il cosiddetto riscaldamento globale.
La seconda speculazione, che è legata alla precedente, è invece di ordine umano: parliamo dell’entropia sociale. La comunità, per poter gestire questi modelli energetici poco efficienti, deve creare strutture, flussi, sistemi, mercati, burocrazie, e così via, sempre più complessi che assorbono ulteriori aliquote di energia. Nel libro Entropia, di Jeremy Rifkin, questo processo viene visto, se non si pongono i dovuti rimedi, come una funzione di non ritorno. Proprio come in equilibrio chimico, quando il rapporto tra reagenti è prodotto viene eccessivamente squilibrato si rischia di non poter più bilanciare l’equazione. Le riflessioni e le speculazioni etiche e scientifiche sono ovviamente consequenziali.
Così per ritornare alla legge 71 del 78 che si preoccupava di salvaguardare le colture specializzate, ci rendiamo conto che proprio questo tipo di agricoltura che si vuole salvaguardare sia quella energeticamente più sconveniente, mentre per far riferimento all’altra norma, cioè la 78 del 76; questa tra le altre prescrizioni, si preoccupa di porre delle fasce di rispetto dei boschi senza entrare nel merito della funzionalità ecologica di queste e del loro rapporto con le are boscate. Insomma un’applicazione alquanto asettica e priva di alcuni presupposti scientifici e tecnici, che non vede gran parte delle funzioni del territorio e delle sue connessioni dinamiche tra ecologia e società.
Oggi, per porre rimedio a tali incongruenze e per poter operare in presenza di discipline convergenti, nella Pianficazione territoriale, si deve andare verso l’individuazione di macroaree geografiche che prendono il nome di Bioregioni. Queste aree, ipotizzate per la prima volta negli anno ’60 da Peter Berg e Raymond Dasmann, sono la sintesi di quei principi etici, politici ed ideologici, connessi all’ecosistema che li caratterizza. Il bioregionalismo è secondo Thomas Rebb, quella “forma di organizzazione umana decentrata che, proponendosi di mantenere l’integrità dei processi biologici, delle formazioni di vita e delle formazioni geografiche specifiche della bioregione, che aiuta lo sviluppo materiale e spirituale delle comunità umane che la abitano”. Si comprende molto bene come si tratti di un approccio alla pianificazione del territorio che si muove su un piano totalmente innovativo.
Così applicando i principi suddetti e le speculazioni del bioregionalismo, procedendo nella direzione dei Sistemi Termodinamici Chiusi, assisteremo ad un cambio totale dei paradigmi organizzativi della società. Si accorceranno i rapporti tra forniture di produzione e servizi e fruitori a vantaggio di sistemi urbanistici più diffusi, meno concentrati ed energivori e con sistemi sociali, ecologici ed energetici di lunga stabilità. Se invece continueremo ad applicare logiche nel verso dei Sistemi Termodinamici Aperti, assisteremo al trend inarrestabile di crescita delle megalopoli, del progressivo impoverimento e degrado delle periferie, con sistemi sociali, ecologici ed energetici molto instabili e di breve durata storica. Qui non mi pare che ci siano molte scelte.
Oggi, ancor prima di affrontare il complesso tema della Pianificazione territoriale è necessario un confronto etico, culturale, ed infine tecnico, tra le varie categorie professionali. Per fare questo bisogna applicare la famosa Regola di Einstein, che recita: “Non potete risolvere un problema con lo stesso tipo di pensiero che avete usato per crearlo”. Non possiamo continuare ad affrontare i problemi solo da un punto di vista tecnico. Sarebbe un comportamento miope ed egoistico ed il più grande errore che potremmo fare. Del nostro atteggiamento futuro la storia ci chiederà conto e ragione!
Guido Bissanti