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L’importanza ecologica delle zone umide

L’importanza ecologica delle zone umide

L’imperativo della cultura dominante degli ultimi decenni è stata quella di modificare, colmare, bonificare, cancellare interi habitat per far posto a coltivi, terreni edificabili e varie opere pubbliche e private. Cosa che, a dispetto di tutte le norme emanate negli ultimi tempi, di ordine ambientale, urbanistico e paesaggistico procede con una velocità folle. Basti viaggiare in auto nelle periferie delle nostre città per vedere lottizzazioni, ruspe che demoliscono, cantieri edili, mentre interi centri storici si spopolano sempre più e aree interne vengono abbandonate, anche dal punto di vista agricolo.
Discorso analogo e, anche più raccapricciante, è quello che riguarda le zone umide del mondo e del nostro Paese.
Purtroppo, tutto ciò anche se sono passati 50 anni dal 2 febbraio 1971, cioè da quando, per la prima volta, le aree umide sono state ufficialmente riconosciute come luoghi di vitale importanza, da proteggere. Luoghi dove animali, piante, microorganismi, ecc. svolgono un fondamentale ruolo per l’equilibrio ecologico del nostro pianeta e per assicurarci, quindi, il diritto alla vita.
Cinquanta anni fa, in Iran, sulle sponde del Mar Caspio – ora minacciato dal cambiamento climatico – i rappresentanti di sette paesi firmavano la Convenzione sulle zone umide di importanza internazionale, nota in tutta il mondo come Convenzione di Ramsar.
È così che nel 1971 a Ramsar è stato messo un argine alla distruzione delle zone umide: i rappresentanti di Iran, Svezia, Norvegia, Australia, Finlandia, Sud Africa e Grecia hanno siglato la Convenzione sulle zone umide di importanza internazionale, entrata in vigore dal 1975. L’Italia l’avrebbe ratificata due anni più tardi, nel 1977. E con lei, anche negli anni successivi, sono entrati nell’accordo oltre 150 Stati.
Oggi l’Italia ospita più di 50 zone umide riconosciute dalla Convenzione, dalle Valli di Comacchio al Molentargius, dal lago di Tovel all’oasi di Vendicari.
Ma perché bisogna preservare le zone umide; questi particolari e fondamentali habitat della Terra.
Le zone umide svolgono un ruolo ecologico cruciale, offrendo una serie di servizi ecosistemici essenziali per l’ambiente e per le comunità umane.
Per sintetizzare il loro ruolo, che è comunque molto complesso, possiamo elencare le seguenti funzioni:
– Controllo delle inondazioni: le zone umide agiscono come spugne naturali, assorbendo l’acqua piovana e riducendo il rischio di inondazioni. Rallentano il flusso dell’acqua, diminuendo l’erosione e la distruzione delle aree circostanti.
– Ricarica delle falde acquifere: le zone umide permettono l’infiltrazione dell’acqua nel terreno, contribuendo alla ricarica delle falde acquifere.
– Le piante e il suolo delle zone umide filtrano i sedimenti, i nutrienti e i contaminanti dall’acqua, migliorando la qualità dell’acqua che scorre nei fiumi e nei laghi.
– Le zone umide forniscono habitat essenziali per una vasta gamma di specie vegetali e animali, inclusi molti uccelli migratori, pesci, anfibi, rettili e insetti che sono cruciali per la sopravvivenza di molte specie rare e minacciate.
– Le zone umide sono, a livello planetario, le più produttive dal punto di vista biologico, supportando catene alimentari complesse. Le piante delle zone umide crescono rapidamente e forniscono cibo e rifugio per molte specie.
– Le zone umide, specialmente le torbiere, sono efficaci nel sequestro del carbonio atmosferico, contribuendo alla mitigazione dei cambiamenti climatici. Accumulano materia organica sotto forma di torba, che trattiene il carbonio per lunghi periodi.
– Le zone umide influenzano il microclima locale, contribuendo a mantenere temperature più fresche e umidità costante nelle aree circostanti.
– Le zone umide offrono risorse naturali come pesce, piante medicinali e materiali da costruzione. Inoltre, sono spesso luoghi di grande valore culturale e ricreativo. Molte specie ittiche commerciali dipendono dalle zone umide per la riproduzione e l’alimentazione, sostenendo così le attività di pesca.
In sintesi, le zone umide sono dei veri e propri buffer ecologici e, quindi, degli ecosistemi fondamentali per il mantenimento della biodiversità, la protezione delle risorse idriche, la regolazione del clima e il sostentamento delle comunità umane. Ecco perché la loro conservazione è essenziale per il benessere ecologico globale.
In generale le zone umide sono degli hotspot di biodiversità: tra gli uccelli a rischio di estinzione, ad esempio, 146 specie dipendono dalle zone umide, senza contare, come detto, le specie di anfibi, rettili, pesci e insetti e altri invertebrati che dipendono da questi ambienti.
Purtroppo quello con le zone umide è un rapporto di amore-odio, che va avanti da migliaia di anni. Le civiltà sono nate in culle ricche d’acqua, tra fiumi, meandri, zone paludose e grandi delta: dall’America all’Asia. In Medio Oriente, tra il Tigri e l’Eufrate si trova la “terra in mezzo ai fiumi” più famosa del mondo, oggi sconquassata da guerre e guerriglie. Dall’altra parte della mezzaluna fertile, in Egitto, già 4000 anni fa si aspettava la piena del Nilo che depositava sui campi il prezioso limo. E poi la Cina con la valle del Fiume Giallo; il Mesoamerica con l’Usumacinta e il Rio Grande de Santiago; e il Pakistan e il Punjab (letteralmente “terra dei cinque fiumi”) con l’Indo: le zone umide sono state protagoniste della storia dell’umanità. Un paradiso terrestre, ricco d’acqua potabile, navigabile, ricco di cibo – dove cacciare e pescare. Dove vivere, abitare e coltivare, governando le acque: imbrigliandole e bonificando per ricavarne suolo da arare o su cui costruire. Fino a trasformare il paradiso in un deserto, facendo sparire del tutto alcune zone umide.
Per esempio, il lago Texcoco, in Messico, faceva parte di un sistema di cinque laghi ormai praticamente scomparsi se non per qualche salina residua. In questo grande bacino mesoamericano con le coste paludose, già gli Aztechi costruirono dighe, chiuse e isole artificiali coltivabili: le chinampa. La stessa Tenochtitlán sorgeva su un’isola sul lago Texcoco ampliata con delle chinampa. E oggi su quell’area umida che al tempo della conquista spagnola si estendeva per oltre 2000 km2, sorge Città del Messico.
Senza andare lontano, gli stessi Etruschi e poi i Romani furono i primi a realizzare grandi opere di ingegneria idraulica e di bonifica in Italia. Non solo fiumi e torrenti, ma le stesse aree umide, paludi e delta: dopo un momentaneo “abbandono” e ritorno alle condizioni naturali nel Medioevo, l’opera di governo è continuata più o meno marcatamente fino ad oggi. Nel frattempo però, da aree ricche di biodiversità e lussureggianti, le aree umide si erano trasformate in “paludi”: paludi dell’anima, luoghi bui, tenebrosi, melmosi, dove ci si ammalava di malaria. Infernali. Tanto da scomodare lo stesso Dante che definì il fiume Acheronte “la livida palude” quando con Virgilio lo attraversa: «“Caron, non ti crucciare:/vuolsi così colà dove si puote/ciò che si vuole, e più non dimandare”./Quinci fuor quete le lanose gote/al nocchier de la livida palude/che ’ntorno a li occhi avea di fiamme rote».
Per tornare in Italia, negli anni Venti del Novecento, sono andate avanti grandi opere di bonifica, prime tra tutte quelle dell’Agro Pontino e della Pianura Padana. Per quanto utili per sconfiggere la malaria, la bonifica è andata oltre al necessario, causando la perdita di habitat, che dal 1950 ha raggiunto un ritmo mai visto prima nella storia.
Una bonifica condotta senza tenere conto di salvaguardare alcuni habitat, senza i quali il nostro Paese è divenuto tra i più fragili dal punto di vista ecologico, idrogeologico e sociale dell’intera Europa.
Un fenomeno purtroppo globale.
Negli ultimi tre secoli, su scala globale, le zone umide si sono ridotte di oltre l’85%. Una perdita che, secondo il rapporto stilato dalle Nazioni Unite, è tre volte più rapida, in percentuale, rispetto alla perdita delle foreste e che si è consumata per lo più nell’ultimo secolo. L’Italia, come detto, è il paese che ha registrato le perdite maggiori: in questo lasso di tempo ha perso il 66% delle sue zone umide, soprattutto litoranee.
Ovviamente la causa della perdita di questo patrimonio e dei suoi servizi ecosistemici è una: i criteri con cui l’uomo vuole creare economia. Poi possiamo suddividere queste molteplici azioni in distruzione diretta, bonifica per conversione a terreni agricoli, inquinamento e così via. Purtroppo per colpa di pochi, e degli interessi di pochi, si perde un patrimonio collettivo dell’umanità.
Moltissime specie a rischio di estinzione hanno bisogno delle zone umide per sopravvivere: se perdiamo questi ambienti perdiamo il 40% delle specie animali e vegetali totali. Secondo le stime dell’Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale già il 40% delle specie legate ad ambienti acquatici si trova in uno stato di conservazione “inadeguato”, il 19% in uno stato “cattivo”, l’11% addirittura “sconosciuto” e solo il 29% “favorevole”.
Se perdiamo questi ambienti, non perdiamo solo la biodiversità ma anche un ulteriore scudo contro i cambiamenti climatici; perdiamo serbatoi di anidride carbonica e strumenti di regolazione dei fenomeni idrogeologici: perdiamo servizi ecosistemici essenziali. Perdiamo acqua potabile e la possibilità di preservare le falde acquifere. Perdiamo ricchezza e anche bellezza: un patrimonio comune che va vissuto, goduto e difeso strenuamente mettendo in atto strategie di prevenzione, mitigazione e adattamento che consentano la tutela e il recupero di queste aree.
Eppure le recenti negazioni sul Green Deal, sulla Nature Restoration Law, ecc.; alcuni movimenti di cittadini, agricoltori, movimenti politici, ecc. che rivendicano il ritorno alla chimica, alle pratiche invasive, ad un sistema industriale non più proponibile, sembrano segnalarci che la lezione che ci sta impartendo la Natura con i suoi disastri, le inondazioni, il riscaldamento globale, ecc. non è ancora servita a nulla.
Sui social si leggono post di persone che negano questi eventi, di politici che rivendicano politiche di restaurazione pericolosissime ed intanto la diminuzione della Natura, nella nostra vita, significa una cosa sola: con essa stiamo rischiando di far diminuire sempre più i diritti umani perché questi sono legati indissolubilmente alla salute del Pianeta. Un Pianeta malato conduce ad una sofferenza globale, ad una diminuzione dei diritti che priva soprattutto i più deboli, siano essi esseri umani, animali o piante.
L’arroganza di pochi è il determinante che priva i diritti di tutti. Ecco perché la politica deve abbandonare il linguaggio economico-finanziario e rivestirsi di principi etici e morali.

Guido Bissanti




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