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Coltiviamo la biodiversità

Coltiviamo la biodiversità

L’interferenza umana sugli ecosistemi è tra le più grandi preoccupazioni dei nostri tempi, tanto che alcuni paesi, come la Cina, stanno predisponendo da tempo dei programmi di limitazione delle nascite mentre in altri, come l’Italia, tra la diminuzione delle stesse e l’emigrazione il trend di crescita è negativo.
Tuttavia la realtà delle cose è molto diversa ed esiste una via che ci consentirebbe di non limitare la popolazione mondiale e, soprattutto, di non interferire con l’ambiente.
Tutto ciò è legato ad un cambio dei sistemi sociali, economici, e del nostro rapporto con la natura.
Gran parte dei nostri stili di vita, del nostro modo di produrre beni e servizi è in totale discordanza con le leggi della natura.
Per esempio, nel settore agricolo, produciamo alimenti ed altri servizi in maniera poco efficiente, sia energeticamente che come rendimento di sistema, con un impatto sui sistemi ecologici senza pari da quando l’umanità ha iniziato ad addomesticare le specie attraverso l’agricoltura.
Basti pensare che nel solo arco di poco più di mezzo secolo il crollo della biodiversità (perfettamente documentato dalle ricerche scientifiche) ha assunto dimensioni, a dir poco, raccapriccianti.
Senza entrare nello specifico dei dati, di cui si potrebbe riempire una intera biblioteca di grandi dimensioni, solo per la classe degli uccelli, secondo BirdLife International, Società di ornitologia della Repubblica Ceca e della Royal Society for the Protection of Birds (RSPB), dal 1980, in Europa, l’agricoltura intensiva ed altre attività umane hanno fatto scomparire tra 600 e 900 milioni di esemplari di specie più comuni di uccelli: in pratica una su sei, con una grande diminuzione del loro apporto soprattutto di fosfati e nitrati, composti fondamentali per la fertilità naturale e agricola, come meglio verificato da un altro studio del Departamento de edafoloxía e química agrícola dell’Universidade de Santiago de Compostela.
Per quanto riguarda gli insetti, altri organismi fondamentali negli equilibri ecosistemici, la rivista Science ha cercato di quantificare il calo calcolando una sintesi dei risultati di diversi studi scientifici già conclusi: il risultato, per alcune specie monitorate, è stato di un crollo del 45 per cento.
I dati sugli altri organismi viventi, come anfibi, rettili, fauna selvatica, specie vegetali, ecc. vanno tutti nella stessa direzione.
Siamo di fronte ad una vera estinzione di massa senza che i Governi (e la coscienza politica, oltre che popolare) abbia compreso appieno la gravità di tale fenomeno.
Altro dato che deve farci riflettere molto è quello sulla Biodiversità Agricola, a cui è legato lo stato di salute degli ecosistemi agrari ed anche quello della salute umana.
Il dato allarmante (FAO) è che, nonostante si conoscano circa 6000 specie di vegetali coltivabili, quelle effettivamente usate nella produzione di cibo sono circa 200, e il 66% della produzione agricola globale è costituito da nove specie soltanto (canna da zucchero, riso, mais, frumento, patata, soia, il frutto della palma da olio, barbabietola da zucchero, manioca). Non va diversamente per le proteine animali: se le specie principalmente allevate sono una quarantina, sono poche quelle sulle quali contiamo per la carne, il latte e le uova.
E così, sotto tale pressione, l’ONU denuncia che, ogni anno, tali effetti, collegati anche al cambiamento climatico, costringono alla fuga circa 20 milioni di persone. Il loro diritto ad essere tutelati e aiutati, però, è molto limitato. Si tratta quindi di una crisi sociale che colpisce soprattutto chi contribuisce meno alle cause del cambiamento climatico.
Di fronte a tale scenario l’intera umanità ha una sola soluzione: riscrivere il suo modo di stare sul pianeta, di fare politica e di legiferare.
Eppure oggi esistono (rimanendo nel campo agricolo) metodi molto più efficienti per produrre cibo ed altri servizi ecosistemici, molto più produttivi (anche questi suffragati da una ingente ricerca scientifica e prove di pieno campo) e che consentirebbero la coesistenza sul nostro pianeta di una popolazione molto oltre i 10 miliardi di persone.
Questi principi si basano, tra gli altri aspetti, sull’aumento della biodiversità dei sistemi agricoli e della capacità degli agricoltori di saper “coltivare” la biodiversità.
In tal senso non si tratta solo di coltivare più specie e razze nelle proprie aziende ma di imparare a conoscere tutta una serie di tecniche tramite le quali si coltivi sia il soprassuolo che il sottosuolo tutelando le rispettive biodiversità e promuovendo la fertilità globale dei sistemi.
L’altro dato che, infatti, ci fa preoccupare ancor di più (caso mai ce ne fosse bisogno) è quello della perdita di fertilità dei suoli con processi di desertificazione sempre più evidenti non solo nei paesi delle aree tropicali e subtropicali ma, oramai, anche nei paesi del nord del mondo.
Eppure negli habitat naturali intatti (sempre più rari) la natura, attraverso i suoi codici e le sue leggi, mantiene perfettamente elevata l’efficienza produttiva (produttività primaria) e gli indici di biodiversità.
La questione, quindi, sta tutta nella fuoriuscita delle tecniche di coltivazioni, della cosiddetta agricoltura specializzata, dai principi di ”coltivazione” dei sistemi naturali.
I primi fanno della specializzazione colturale, dell’uso di input esterni, di prodotti regolatori di sintesi, ecc. il loro sistema per ottenere biomasse (ad uso alimentare o energetico); le seconde fanno della massima biodiversità, della regolazione interne degli equilibri ecosistemici, e delle biocenosi utili, il loro sistema per ottenere biomassa.
Tra i due sistemi l’efficienza energetica è notevolmente a favore dei sistemi naturali.
Tale assunto trova i suoi fondamenti nelle leggi della termodinamica (a cui nessuna economia e politica può andare contro).
Tali leggi ci dicono che i Sistemi Dissipativi, quali sono appunto gli ecosistemi (naturali o artificiali – cioè quelli agricoli) hanno una maggiore efficienza quanto più diversi sono questi.
Ma per coltivare la biodiversità serve una nuova classe di agricoltori, di tecnici, di assistenza tecnica e di politiche dedicate che, seppur timidamente presenti nel dibattito politico o in pieno campo, debbono ancora trovare un “terreno fertile” su cui svilupparsi.
L’agroecologia è la scienza che interpreta integralmente tutto questo ma, purtroppo, è in gran parte ancora sconosciuta, poco studiata, meno applicata e, ancor meno presente nella coscienza politica e di molti agricoltori, tant’è che uno dei primi risultati dei movimenti e delle manifestazioni degli agricoltori in Europa è stato quello di limitare notevolmente il Green Deal e di far quasi abortire la Strategia Farm to Fork, con grande soddisfazione delle multinazionali della chimica e della genetica.
Come a dire che per dare ossigeno ad un malato chiudiamo o limitiamo la pressione della bombola.
Tale questione prefigura pertanto una nuova coscienza ecologica che non è né ambientalista (nel senso negativo del termine) né semplicemente teorica.
Serve una nuova formazione, un nuovo approccio all’uso della terra e delle sue regole, alla gestione degli esseri viventi.
Quando coltiviamo una pianta, alleviamo un animale, diserbiamo un campo, eliminiamo insetti, uccelli, anfibi, ecc., ci arroghiamo il diritto a non vivere, perché fuori dalle regole della Natura non c’è né vita né tempo per la storia.
Questa non è la visione poetica di un ambientalismo utopico ma il rendiconto certo ed inoppugnabile della Scienza che trova molto difficoltà ad entrare nelle coscienze e conoscenze sociali e politiche, tanto è il rumore assordante che la cattiva informazione dei grandi interessi economici fa sull’opinione pubblica (il cosiddetto Greenwashing).
Per sfuggire ad essa abbiamo un solo rimedio; quello di iniziare a coltivare la biodiversità, recuperare le specie che, colpevolmente, stiamo perdendo, iniziando da piccole superfici per capirne il senso e i vantaggi che tutto ciò apporta al nostro sapere ed alle nostre coscienze.

Guido Bissanti




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