Agricoltura moderna e pesticidi
Agricoltura moderna e pesticidi
L’incremento delle pratiche agricole intensive, che si è sviluppato progressivamente, soprattutto dagli inizi degli anni ‘50 del secolo scorso in poi ha generato sistemi agricoli sempre più lontani da un equilibrio ecologico.
In queste condizioni, e soprattutto in presenza di specializzazioni elevate e di bassa biodiversità delle coltivazioni, il sistema produttivo è divenuto sempre più fragile e suscettibile agli attacchi di patogeni. Sappiamo infatti che, di norma, gli organismi dannosi si diffondono meno rapidamente nelle consociazioni, per via della differente suscettibilità agli insetti, ai patogeni e per via della maggiore abbondanza ed efficienza dei nemici naturali (Altieri M.A. et al. 2015).
Tra l’altro l’impiego di specie, varietà e razze provenienti da altri areali o da selezioni ha comportato spesso la minor resilienza di queste coltivazioni o allevamenti a fattori biotici o abiotici differenti.
In queste condizioni i sistemi agricoli moderni hanno dovuto far ricorso ad un sempre maggiore uso di sostanze di sintesi.
In queste condizioni però si manifestano numerose e progressive ricadute negative sull’ambiente agricolo e naturale. Una di queste è sicuramente, come detto, la perdita di biodiversità, l’inquinamento e la conseguente fragilità degli ecosistemi.
Queste sostanze, spesso di sintesi, uccidono insetti, funghi e piante e, con i loro residui e metaboliti, si accumulano nella catena alimentare, peggiorando la salubrità degli alimenti, incidendo negativamente sulla sopravvivenza di numerose specie di uccelli, anfibi, rettili, mammiferi e pesci che si cibano di organismi contaminati. Inoltre la scomparsa o la diminuzione di determinate specie significa la perdita di un gradino di alcune catene alimentari e l’interruzione di rapporti ecologici che influiscono negativamente sul gradino successivo.
Uno di questi fenomeni è quello della diminuzione degli insetti, ribattezzato dai ricercatori anche come “effetto parabrezza”, cioè di quel fenomeno che si nota quando si viaggia in auto e ci si ritrova col parabrezza pieno di insetti.
L’effetto parabrezza, e la graduale osservazione che questo fenomeno col passare degli anni è divenuto sempre più evidente, è stato confermato da alcuni studi scientifici.
Secondo alcune meta analisi lo sterminio degli insetti marcia a un ritmo preoccupante che, alcuni studi pubblicati su Biological Conservation, fanno attestare sul 2,5 per cento; tuttavia si tratta di un numero assolutamente approssimativo. Il 40 per cento delle specie di insetti conosciute è in costante declino; un terzo delle specie è in grave pericolo. E non a caso nell’Agenda 2030 dell’Onu per lo Sviluppo sostenibile, come goal numero 15 compare l’obiettivo “Proteggere, ripristinare e favorire un uso sostenibile dell’ecosistema terrestre”.
Nel 2014 la rivista Science ha cercato di quantificare tale diminuzione calcolando una sintesi dei risultati di diversi studi scientifici già conclusi: il risultato, per alcune specie monitorate, è stato di un crollo del 45 per cento. Ricerche più specifiche e circoscritte hanno dato numeri ancora più allarmanti. Per esempio, la quantità degli insetti volanti nelle riserve naturali tedesche si è ridotta del 75 per cento nell’ultimo quarto di secolo. Negli ultimi vent’anni la popolazione delle farfalle monarca negli Stati Uniti è diminuita del 90 per cento, con una perdita di circa 900 milioni di esemplari. In Inghilterra sono scomparse, in meno di dieci anni (periodo 2000 – 2009), il 58 per cento delle farfalle presenti nei campi coltivati.
Finora sono state catalogate e descritte circa un milione di specie di insetti. Ma gli entomologi pensano che esistano altri quattro milioni di specie “sommerse”, ovvero ancora non determinate dall’uomo e, quindi, completamente ignorate dalla scienza. A numeri così imponenti, prova tangibile della biodiversità della natura, si associa il rischio che, nel caso degli insetti, i problemi seri, per tutti, arrivino non già con la scomparsa di una specie, ma anche solo con quella diminuzione che gli esperti chiamano “estinzione funzionale”, quando, cioè, la diminuzione di una specie di insetti è tale da essere sufficiente per mettere a rischio la sua funzione all’interno di un ecosistema.
Ci sono diversi uccelli e pesci che si nutrono di insetti, e se questi diventano troppo esigui, sorgono problemi di cibo e in generale di alimentazione. Allo stesso modo, nel caso degli insetti una perdita anche solo del 30 per cento della quantità di una specie può essere così destabilizzante da provocare l’estinzione totale di altre specie. E nell’80 per cento dei casi sono proprio quelle che hanno subito questo effetto secondario a scomparire per prime.
Tra le cause di questa forte diminuzione della popolazione degli insetti, secondo le ricerche effettuate, ce ne sono in particolar modo tre:
– la prima riguarda la distruzione degli habitat naturali. Nelle aree urbane con la riduzione degli spazi verdi e liberi, nelle campagne per effetto di un’espansione agricola che altera l’equilibrio della vegetazione;
– in secondo luogo, gli insetti sono minacciati da erbicidi e insetticidi: potentissimi nella loro azione, in grado di immettere veleni mortali che poi persistono per lunghi periodi;
– infine, la causa più attuale, e anche quella che sta crescendo con maggiore intensità: il surriscaldamento climatico. Anche gli insetti, a ciascuna latitudine del pianeta, sono abituati a vivere ed a riprodursi a certe temperature. Se queste temperature si alzano troppo non riescono più a deporre le uova ed a completare i loro cicli, e con questo la riproduzione rallenta. Ed è quanto sta avvenendo.
Ricordiamo che gli insetti svolgono fondamentali funzioni ecosistemiche: infatti sono indispensabili impollinatori e riciclatori degli ecosistemi. Essi sono alla base della catena alimentare. Migliaia di miliardi di insetti, passando da fiore in fiore, impollinano circa tre quarti delle colture delle quali ci nutriamo, un’attività che vale 500 miliardi di dollari all’anno. Mangiando e facendosi mangiare, da uccelli e da pesci, gli insetti trasformano le piante in proteine e favoriscono la crescita di tutte le innumerevoli specie che si nutrono di loro. Esiste poi un ruolo degli insetti del tutto invisibile, ma non per questo meno essenziale: la decomposizione, che consente il riciclo delle sostanze nutrienti, mantiene sano il terreno, favorisce la crescita delle piante e l’efficiente funzionamento degli ecosistemi.
Purtroppo lo scenario è ancora più ampio.
Infatti i prodotti di sintesi immessi nell’ecosistema hanno anche colpito insetti che svolgevano compiti particolarmente utili per gli ambienti umani; per esempio la scomparsa di quelli che si nutrivano di larve di zanzara che ha influito negativamente sulla diffusione della malaria, riapparsa in popolazioni che l’Organizzazione Mondiale per la Sanità aveva ormai dichiarato fuori pericolo.
Una delle più gravi conseguenze è quella, come accennato, sugli insetti impollinatori come le api ed altri pronubi. Il tasso di mortalità di questi insetti è ultimamente molto superiore al tasso naturale di mortalità e tra alcune delle cause più incidenti c’è proprio l’uso di insetticidi.
Per fare un esempio, nel Sichuan, regione della Cina centro-occidentale, gli agricoltori sono costretti a fertilizzare a mano i fiori dei loro peri, dato che l’uso incontrollato di insetticidi ed altri veleni ha sterminato le api della regione. Questo a sua volta è causa di perdita di biodiversità perché le api viaggiando per chilometri, trasportano lontano i pollini, promuovendo l’ibridazione tra piante diverse.
L’uso dei prodotti di sintesi, inoltre, ha conseguenze sulle popolazioni umane.
Molte ricerche e dossier hanno messo in evidenza come grandi percentuali di frutta e verdura presenti sulle nostre tavole è contaminata con residui di uno o più pesticidi e una percentuale di questi prodotti presentano addirittura quantità di residui che superano il limite consentito dalle norme vigenti.
Inoltre i pesticidi stanno contaminando a ritmo crescente il suolo e l’acqua: ci sono molti esempi di intere comunità che soffrono di avvelenamento cronico da pesticidi ed altri inquinanti in quanto i residui di alcuni composti chimici, anche quando usati correttamente, rimangono nell’ambiente per anni, determinando una diminuzione della qualità delle risorse del suolo e delle falde, fenomeno oramai noto da decenni ed a cui non si sono mai posti concreti e seri rimedi (Galli L. et al. 1987).
Inoltre la perdita di biodiversità e le specializzazioni produttive hanno portato ad un aumento delle specie indesiderate, non avendo più queste né competitori né predatori. Ciò ha comportato la necessità di un ulteriore aumento nell’uso di pesticidi (in particolar modo diserbanti) che provocano un’ulteriore perdita di biodiversità, innescando un circolo vizioso che, se non fermato in fretta, porterà a conseguenze molto pesanti, non solo per l’ambiente ma anche per l’intera umanità.
Ricordiamo, inoltre, che l’uso di pesticidi ha pesanti conseguenze anche a livello economico. Innanzitutto con l’aumento della resistenza dei parassiti, fattore che richiede un ulteriore incremento delle dosi degli stessi e poi con la continua ricerca di nuove molecole che si ripercuote sull’aumento dei costi a carico degli agricoltori e, di conseguenza, dei consumatori. Nel conto vanno anche considerati i costi indiretti dovuti ai casi di intossicazione acuta, alle manifestazioni patologiche croniche nell’uomo e alle malformazioni dovute all’effetto mutageno di molti prodotti di sintesi nelle aree ad agricoltura intensiva. Oltre, ovviamente, ai costi provocati dalla ridotta impollinazione delle piante: ricordiamo che quasi il 10% della produzione agricola mondiale dipende da questo servizio ecologico svolto da api ed altri insetti.
Purtroppo, come ci confermano i dati (AA.VV. 2023) il consumo agricolo globale di pesticidi è cresciuto per lo più costantemente dal 1990 al 2021. Nell’ultimo anno, il consumo di pesticidi in tutto il mondo si è attestato a quasi 3,54 milioni di tonnellate. Questa tendenza riflette la crescente domanda di prodotti chimici per la protezione delle colture.
Negli ultimi decenni per evitare o, comunque, diminuire l’uso di molecole di sintesi, le alternative possibili per gli agricoltori sono state, essenzialmente, la lotta biologica e la lotta integrata. La lotta biologica sfrutta i rapporti di predazione e competizione già esistenti tra gli organismi viventi, allo scopo di contenere le popolazioni degli organismi dannosi, come ad esempio l’uso di coccinelle per la lotta agli afidi o ad altri insetti fitofagi delle piante, l’uso della rotazione delle colture, la lotta agli insetti dannosi tramite tecnica del maschio sterile o la diffusione di feromoni di confusione sessuale, ecc.
La lotta integrata, oltre a ciò, prevede anche l’applicazione di numerosi accorgimenti, quali l’uso di varietà colturali maggiormente resistenti, consente l’utilizzo di pesticidi meno dannosi per l’uomo e per gli insetti utili (prodotti selettivi) e facilmente denaturabili dall’ambiente. Questo approccio è prevalentemente usato nella lotta contro gli insetti, ma si può estendere nella lotta contro tutti gli organismi dannosi (funghi, roditori, ecc.). Il suo obiettivo è quello di mantenere l’organismo nocivo entro una soglia nella quale non crea danno economico, senza eradicarlo.
Questo primo approccio al problema e l’adozione di questo tipo di agricoltura ha migliorato, per esempio, come già accennato, la coltivazione del riso in tutta l’Asia. I raccolti sono aumentati e dove si adottavano queste tecniche l’uso dei pesticidi è diminuito. In Indonesia, la lotta naturale contro gli insetti nocivi ha sostituito l’uso degli insetticidi per un equivalente di oltre 100 milioni di dollari l’anno mentre il raccolto di riso è aumentato di circa il 20 per cento. Negli ultimi 30 anni, più di 50 Paesi hanno inserito nelle loro politiche agricole nazionali forme di controllo naturale degli insetti nocivi.
È evidente che la strada intrapresa sia quella buona ma, a questo punto, è palese che per uscire completamente da questo sistema di assoluta dipendenza da fattori esterni e procedure di controllo, a volte anche molto costose, sia per l’ecologia che per l’economia, bisogna cambiare il paradigma produttivo transitando verso una modello innovativo dove siano le tecniche a sincronizzarsi con i principi della natura, utilizzando, altresì, i suoi servizi.
Possiamo affermare che questa transizione rappresenta la vera e grande rivoluzione verde, l’unica che possa assicurare al pianeta e quindi anche all’umanità un modello ecologico integrale che va, appunto, sotto il nome di agroecologia.
Guido Bissanti
Il presente articolo è una delle sintesi che emergono dal libro di prossima pubblicazione sull’agroecologia (primavera 2024) a firma del sottoscritto e degli altri ricercatori: Giovanni Dara Guccione (CREA-PB), Barbara Manachini (UNIPA), Paola Quatrini (UNIPA) e con la prefazione di Luca Mercalli (presidente Società Meteorologica Italiana).
Per favore, chiamiamoli Agrofarmaci e non pesticidi
Mi dispiace contraddirla in quanto anche se vengono inquadrati come agrofarmaci nella nomenclatura legislativa e giurisprudenziale europea, gran parte dei loro meccanismi biochimici agiscono spesso come soppressori o inibitori enzimatici, con lo scopo precipuo di causare la morte dell’individuo target, per cui agrofarmaco è un termine inopportuno anche se adottato dall’UE. In altri Paesi infatti i termini sono differenti e più coerenti alla loro azione biochimica. Nel caso invece dei farmaci per animali o uomini questi agiscono spesso con meccanismi di soppressione o inibizione enzimatica (o con altre forme) ma allo scopo di alleviare o risolvere un malfunzionamento metabolico o patologia. Ci dispiace che tali sottigliezze (che tali non sono anche da un punto di vista etico) non siano chiare in molti (anche tra professionisti del settore).
Inoltre dopo la Direttiva 2009/128/CE la denominazione corretta è “Prodotti Fitosanitari”, recepita dal D.L. 14 agosto 2012, n. 150 in attuazione della direttiva 2009/128/CE che istituisce un quadro per l’azione comunitaria ai fini dell’utilizzo sostenibile dei pesticidi.