Dagli Habitat all’Agroecologia
Dagli Habitat all’Agroecologia
La ricostruzione del tessuto agricolo e la connessione con quello ecologico, dopo le devastazioni degli anni che vanno dal periodo dopo la seconda guerra mondiale ad oggi, deve seguire un preciso percorso metodologico e scientifico, senza il quale non solo non sarà possibile definire perfetti standard di ricostruzione agroecologica del tessuto produttivo ma tanto meno associarli ad una ricostruzione dei sistemi nutrizionali ed agroalimentari moderni.
Pertanto la definizione, anche geografica, di aree con identità agroecologica corretta dovrà caratterizzarsi a partire dalle linee guida della Strategia Nazionale della Biodiversità conseguente alla Direttiva 92/43/CEE (Direttiva Habitat) che, a dire il vero, si è sviluppata con alcune carenze da parte dell’Italia che non ha contribuito a ben definire importanti habitat o dettagli degli stessi.
Pur tuttavia il punto di partenza della Direttiva, che ha contribuito alla creazione della Rete Natura 2000, deve essere quello della realizzazione di un differente approccio produttivo dove, le singole aziende, collocate nel territorio, come cellule di una struttura a scala più grande, contribuiscano alla realizzazione di tre funzioni:
1. Funzione ecologica – per mezzo della scelta di indirizzi produttivi non legati solo al mercato ma intrinsecamente collegati alla bioregione e quindi all’habitat ove ricadono;
2. Funzione produttiva – attraverso la scelta di specie, razze ed ecotipi che, secondo un fattore di resilienza ottimale, siano intimamente connesse e sussidiarie; attraverso quindi la riprogettazione di consociazioni, rotazioni, biodiversità e correlazioni che riproducano, quanto più possibile, l’identità dell’habitat di riferimento;
3. Funzione agroalimentare – attraverso un ripensamento del sistema alimentare, non solo in termini di collegamento tra luogo di produzione e terminali di approvvigionamento, ma anche attraverso un ripensamento delle diete alimentari poco connesse alle tipicità territoriali e molto povere di biodiversità alimentari.
Ripensare a questa struttura agroecologica ed agroalimentare significa ristabilire le fondamenta per un rapporto tra l’agricoltura ed il Pianeta molto equilibrata, di lunga sussistenza e, soprattutto, a dispetto dei proclami che l’agricoltura industriale sia l’unica che possa sfamare le popolazioni, soprattutto per un futuro oramai prossimo, di migliore rendimento ecologico, produttivo ed energetico in quanto basata sui cardini di sistemi produttivi a ciclo chiuso che, notoriamente, in termodinamica e, quindi, in ecologia, sono quelli a più alta efficienza e resilienti.
A precisazione di questi ultimi concetti bisogna pensare che la cosiddetta “agricoltura industriale” o intensiva, col suo modello fortemente determinato e dominato da due fattori quali, l’uso della chimica di sintesi e la dipendenza dalle grandi piattaforme commerciali, ha operato, gradualmente, un appiattimento e perdita della biodiversità produttiva, con la scomparsa progressiva di razze, varietà ed ecotipi, e una perdita del valore nutrizionale delle nostre diete troppo legate a questo schema.
Il modello che ne è conseguito ha perso l’originaria connessione tra sistema produttivo agricolo e sistema ecologico, determinando in certi casi, a livello di singola azienda, rese unitarie produttive maggiori, ma a livello di sistema, perdita di biodiversità, fertilità, patrimoni storici ed, in generale, decremento ed impoverimento dei sistemi ecologici. A corollario di questo bisogna dire che, a differenza del sistema agroecologico, l’agricoltura intensiva si basa su sistemi produttivi (termodinamicamente) aperti e quindi a minore efficienza di rendimento.
In definitiva, le maggiori rese a cui abbiamo assistito, negli ultimi decenni, a livello di singola azienda, sono state pagate a caro prezzo con un paragone di rendimento che, secondo alcuni calcoli arrivano fino ad 1/10 con quelli più efficienti agro ecologici.
A questo bisogna aggiungere che alla perdita di tipo energetico ed ecologico di cui sopra, si è avuto un impoverimento dei sistemi agroalimentari, molto slegati dalla stagionalità, dalla territorialità, dalla biodiversità, dagli ecotipi e, quindi, con una informazione alimentare che, essendo più povera, si ripercuote su un sistema di salute complessivo delle nuove generazioni.
Da quanto detto ne deriva che, ripensare ad un modello agroecologico significhi anche ripensare ad una differente connessione tra le cellule produttive (aziende) e le cellule dissipative (comunità umane). Le due strutture devono essere messe in connessione, correlate, in continuo dialogo e conoscenza reciproca.
Il futuro ecologico del Pianeta non può passare da continui tentativi di mettere in piedi e reiterare modelli produttivi che non abbiano alla base elementi scientifici basati e fortemente correlati a discipline come: Ecologia e Termodinamica dei Sistemi Complessi.
Sullo sfondo di questa evoluzione dei sistemi, che di fatto ritorneranno a sincronizzarsi ed allinearsi a quelli ecologici, si intravedono con sempre maggiore concretezza i principi sanciti dalle politiche bioregionali e dell’Economia Circolare.
In questo senso va subito sottolineato come l’attuale politica europea di settore, con la sua PAC ed i suoi PSR, parli ancora una lingua ancora inadeguata che, comunque, con Agenda 2030 e con l’ultima Strategia UE sulla biodiversità per il 2030 – Riportare la natura nella nostra vita – apre una speranza nuova.
Come detto in altri contributi, adesso il testimone deve passare ad uno scenario politico che, a dire il vero, paga un ritardo di linguaggio, di proiezioni e di prospettive alquanto preoccupante.
Uno scenario dove ricostituire una nuova identità di Sistema che accomuni Scienza, Politica e Tecnica troppo in ritardo per le scelte molto delicate che avremmo già dovuto attuare.
Guido Bissanti