Riscaldamento Globale
Riscaldamento Globale
Il riscaldamento globale è quel fenomeno di innalzamento della temperatura superficiale del pianeta, con particolare riferimento all’atmosfera terrestre ed alle acque degli oceani.
Il Riscaldamento Globale, pertanto, attraverso l’ aumento delle temperature, è dovuto a cause naturali, come l’irraggiamento solare combinato con il naturale effetto serra dell’atmosfera, ma una parte importante del surriscaldamento è riconducibile alle attività umane: l’utilizzo dei combustibili fossili, la deforestazione, l’allevamento e l’agricoltura intensive sono tutte cause del surriscaldamento ad opera dell’uomo.
Nel 2005 l’Intergovernmental Panel on Climate Change delle Nazioni Unite (IPCC) ha sottolineato che la temperatura del pianeta Terra, durante gli ultimi 100 anni, è aumentata di 0,74 ± 0,18 °C, chiarendo che “la maggior parte dell’incremento osservato delle temperature medie globali a partire dalla metà del XX secolo è molto probabilmente da attribuire all’incremento osservato delle concentrazioni di gas serra antropogenici”.questa è oramai una tesi sostenuta ed accettata da oltre trenta associazioni scientifiche internazionali.
Di seguito si riportano alcuni grafici dove vengono riportati sia l’andamento delle temperature che dei livelli di CO2 negli ultimi secoli.
Immagine 1 – Andamento della Temperatura Mondiale
Immagine 2 – Livello di Andiride Carbonica negli utlimi 1000 anni
È impossibile non notare una relazione: i livelli di CO2 aumentano sensibilmente a partire dal periodo della Rivoluzione industriale (nel corso del 1800), e le temperature vanno di pari passo con l’aumento dell’anidride carbonica (dovuto all’utilizzo di combustibili fossili come carbone, petrolio e derivati).
Il riscaldamento globale è pertanto legato indissolubilmente a fenomeni antropici i quali sono direttamente proporzionali a modelli culturali prima e sociali dopo.
Non si può evitare il riscaldamento globale, e quindi tutte le sue conseguenze,
I cambiamenti climatici sono quindi una realtà con cui bisogna fare i conti. È il caso di dire che ci stiamo letteralmente “mangiando il pianeta”. Troppi paradossi nel sistema agroalimentare mondiale, troppe disuguaglianze e troppe patologie legate al cibo
Gli studi internazionali mostrano che in tutta Europa aumenteranno le temperature: ci sarà un marcato aumento di precipitazioni nel Nord Europa e una diminuzione significativa nel Sud Europa e un incremento delle ondate di calore, dei periodi di siccità e di precipitazioni estreme.
Inondazioni, erosione costiera e danni alle infrastrutture in molti luoghi. Il rischio è già presente all’attuale livello di cambiamento climatico (+0.61 °C rispetto al periodo preindustriale) e aumenterà progressivamente fino a diventare alto per un innalzamento sopra 2°C e molto alto sopra ai 4° C.
Tutto ciò ha indotto da una parte ad un’impennata dei prezzi dei beni agricoli* e ogni anno si riscontrano segnali di vulnerabilità e risposte imprevedibili dei mercati in seguito alle anomalie climatiche in diverse regioni del Pianeta.
Sarà inevitabile che la tendenza di crescita delle emissioni di gas serra portino una riduzione della produzione agricola mondiale di circa l’8% nel 2050, a fronte di una richiesta di cibo che aumenterà del 56%. La combinazione dei cambiamenti climatici e dell’incremento di popolazione esporrà circa 2,5 miliardi di persone, sui 9,3 miliardi stimati di popolazione globale, a scarsità di cibo. Lo studio aggiunge che qualora cambiassero gli stili dei consumi alimentari nel senso di un aumento della dieta mondiale verso alimenti più ricchi di grassi e proteine animali le persone a rischio malnutrizione per scarsità di cibo diventerebbero circa 4,7 miliardi. In questo scenario si comprende la necessità di ridurre le emissioni di gas serra dovute ai combustibili fossili ma anche un’attenzione analoga alle emissioni di gas serra dovute all’eliminazione delle foreste tropicali e all’intensificazione dell’agricoltura.
Per porre rimedio (o diminuire il fenomeno) dobbiamo riflettere sul sistema alimentare globale che oggi ci presenta tre paradossi: a fronte di un numero elevatissimo di persone che non hanno accesso al cibo, un terzo della produzione di cibo nel mondo è destinato ad alimentare gli animali (in allevamenti intensivi ed inopportuni sia dal punto di vista energetico che etico) e una quota crescente dei terreni agricoli è dedicata alla produzione di biocarburanti per alimentare le auto (non in Italia). E a fronte di milioni di persone al mondo che patiscono la fame o è malnutrito, circa oltre due miliardi soffrono le conseguenze dell’eccesso di cibo, con un rischio aumentato di diabete, tumore e patologie cardiovascolari; infine, ogni anno viene sprecato un terzo della produzione alimentare globale, una quantità che sarebbe sufficiente a nutrire quasi un miliardo di persone che soffrono la fame o sono malnutrite.
In aggiunta a tutto ciò nessuna Organizzazione Governativa Mondiale (timidi accenni della FAO) lancia un grido di allarme alla illogicità dei grandi trasferimenti di derrate agroalimentari tra stati che producono identici alimenti e quindi con trasferimenti inutili, dispendiosi, non solo dal punto di vista economico, ma soprattutto dal punto di vista energetico: il trasferimento delle masse (soprattutto per i prodotti agroalimentari va contro i criteri di sovranità alimentare e contro quelli energetici con emissioni di ingenti quantità di gas ad effetto serra).
Se si considera seriamente tali paradossi si dovrebbe decidere che è urgente rendere l’intera filiera del cibo, dalla produzione, alla trasformazione e consumo, inclusi stili di vita alimentari, più efficiente e sostenibile.
Ma è proprio sotto accusa l’Europa, il maggiore esportatore di prodotti dell’industria agroalimentare, che dovrebbe indicare al mondo, in particolare ai paesi emergenti, il proprio modello di smart agricolture; cioè di un’agricoltura a basso impatto ambientale, con criteri di filiera corta e di prossimità degli scambi. Si tratta di riaffermare l’innovazione, soprattutto nelle tecniche di coltivazione e trasformazione del cibo, che hanno fondato in secoli di storia la civiltà contadina italiana ed europea. La mancanza di una attenta e capillare trasformazione alimentare, anche nel rispetto delle tradizioni culturali dei popoli, è oggi il principale responsabile di circa il 40% delle perdite di cibo tra la produzione in campo e la distribuzione sui mercati dei Paesi in via di sviluppo.
La valutazione dell’impatto ambientale degli alimenti dovrebbe essere basata sull’applicazione di tre indicatori ecologici: le emissioni di gas serra associate alla loro produzione (impronta di carbonio o carbon footprint), l’indicatore di uso dell’acqua (water footprint) e l’impronta ecologica (ecological footprint). Quest’ultima è già un parametro che indica in modo sintetico quanta terra è necessario utilizzare per compensare gli effetti ambientali di una determinata produzione. L’unità di misura di questo indicatore sono i metri quadri di terreno. Ad esempio, il consumo di 1 Kg di carne bovina necessita di 110 mq di terreno. La doppia piramide, nella sua versione divulgativa, usa proprio l’impronta ecologica come indicatore di impatto degli alimenti sull’ambiente. La consapevolezza dell’impatto del cibo sull’ambiente e sulla nostra salute è essenziale per iniziare a porre le basi di un nuovo modello di sviluppo sostenibile.
Ma il modello agroalimentare non conduce con se solo la sua aliquota di impronta ecologica, trascina con se l’intero modello e l’intera cultura mondiale verso criteri di sobrietà, diversificazione e prossimità dei processi, senza i quali la battaglia per il Riscaldamento Globale è perduta in partenza.
L’Agricoltura è l’inizio della Storia Umana e senza un suo riequilibrio culturale ed umanistico rischia di trascinare con se l’Umanità verso la sua fine.
Guido Bissanti
* tale impennata viene però spesso calmierata da operazioni di mercato e di cartello che in alcuni casi incidono invece negativamente sullo stesso prezzo (vedi caso del prezzo del frumento in netta diminuzione in Italia negli ultimi anni).