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Plastiche tra agricoltura e oceani

Plastiche tra agricoltura e oceani

Secondo il report dell’OCSE (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico) del 2019, la produzione annuale di plastica, a livello mondiale, è raddoppiata, passando da 234 milioni di tonnellate del 2000 alle 460 milioni attuali. Parimenti è salita la produzione di rifiuti – più che raddoppiata – che ha raggiunto le 353 milioni di tonnellate.
Per questo motivo la Corte dei Conti europea – nel dossier “L’azione dell’UE per affrontare il problema dei rifiuti di plastica” ha paventato l’impossibilità di raggiungere gli obiettivi di riciclo definiti per gli imballaggi e i rifiuti in plastica, legati anche ad una insufficiente attività di riciclo e di implementazione dei criteri dell’economia circolare.
In tal senso gli imballaggi in plastica dominano il mercato del packaging e rappresentano la prima fonte di “rifiuti di plastica post-consumo raccolti tramite i flussi pertinenti” (61%). Il loro tasso di riciclo a livello europeo, 41%, è drasticamente inferiore a quello di ogni altro materiale di confezionamento: carta e cartone (83%), metallo (76%), vetro (73%). Ed è così che i cittadini europei producono in media 32 kg/anno pro-capite di rifiuti in plastica. I quali finiscono in discariche e termovalorizzatori, oltre a venire dispersi nell’ambiente e, quindi, nei mari di tutto il mondo.
A questo scenario poco rassicurante, per quanto diremo anche in seguito, contribuisce in maniera sproporzionata e sconsiderata l’uso delle agro-plastiche, cioè della plastica utilizzata in agricoltura. Si consideri che nel 2017 nel settore agricolo dell’UE sono stati usati almeno 1,7 milioni di tonnellate di plastica. In ordine decrescente, le principali applicazioni sono:
– pellicole per insilato, serre e gallerie;
– film in materiale plastico per pacciamatura;
– tubi per irrigazione;
– reti e corde.
Plastics Europe (Associazione di categoria europea con varie sedi) riferisce che nel 2014 il 42% dei rifiuti in plastica per usi agricoli sarebbe stato smaltito in discarica, il 30% combusto per produrre energia e il 28 % riciclato. Ma la notizia appare poco credibile e la stessa Corte dei conti europea riconosce la probabilità “che una parte della plastica sia abbandonata nei campi o sia bruciata illegalmente”.
Fanno da certificazione a questo legittimo dubbio i notevoli ritrovamenti, da parte delle forze dell’ordine specializzate, soprattutto nelle aree serricole e di produzioni sotto tunnel, di ingenti quantitativi sotterrati di plastiche o di bruciature illegali durante alcune ore o periodi dell’anno.
Inoltre l’agro-plastica è uno dei problemi più gravi da affrontare, tenuto conto dell’immediata dispersione nei suoli e nelle acque dei suoi residui. Insufficiente è, inoltre, ancora, la ricerca, lo sviluppo e l’utilizzo di materiali alternativi come le bioplastiche 100% biodegradabili, possibilmente derivate da sfalci vegetali e sottoprodotti delle lavorazioni agricole.
Ed i dati dell’OCSE ci dicono che è necessario, in ogni caso, invertire la tendenza in crescita della produzione di plastica, anche alla luce del suo contributo significativo alle emissioni di gas-serra e all’emergenza climatica.
A questa preoccupazione se ne va ad aggiungere un’altra, ancora più preoccupante. Infatti il progressivo processo di acidificazione degli oceani potrebbe non essere determinato solo dall’aumento della CO2 atmosferica.
Uno studio spagnolo, condotto dall’Institut de Ciències del Mar (ICM-CSIC) di Barcellona e pubblicato di recente su Science of the Total Environment, ha stabilito una relazione tra il calo del pH e uno dei problemi ambientali più pervasivi dell’ultimo secolo: l’inquinamento della plastica in mare.
Questo studio ha permesso di dimostrare che nelle aree di superficie oceanica altamente inquinate dalla plastica, il degrado di questi rifiuti porterà a una diminuzione fino a 0,5 unità di pH. Valore paragonabile al calo di pH stimato nei peggiori scenari di emissioni antropogeniche per la fine del XXI secolo.

Microplastiche e palstiche nei mari

La relazione tra inquinamento da plastica e acidificazione degli oceani assegna un ruolo fondamentale alla luce del sole. I raggi ultravioletti, infatti, hanno un effetto degradante e invecchiante per le materie plastiche aiutando la scomposizione in piccoli pezzi, producendo le cosiddette microplastiche.
Inoltre più i polimeri subiscono questo trattamento, maggiore è il grado di degradazione che raggiungono. Nel corso di questo processo c’è un aumento progressivo del rilascio di una serie di composti chimici nell’acqua, che ne alterano il pH. Non si tratta sempre di sostanze che derivano direttamente dal polimero vergine. A volte, infatti, a essere rilasciati sono additivi che sono stati aggiunti per migliorarne colore, resistenza o altre caratteristiche.
Quello che è certo è che nel corso di questo processo c’è un rilascio di CO2 derivante direttamente dalla plastica o essere un prodotto delle reazioni che la luce solare innesca nei composti organici rilasciati da questo materiale. L’anidride carbonica, a sua volta, altera il pH delle acque.
Inoltre, i ricercatori impegnati nello studio, analizzando il pH delle acque e il carbonio organico disciolto, hanno riscontrato che dopo soli sei giorni di esposizione la plastica aveva rilasciato grandi quantità di composti organici e il pH delle acque era sensibilmente mutato; il fenomeno non si è invece ripetuto in maniera così strutturale negli esperimenti con plastica più “recente”.
Questo scenario richiede, ovviamente, un intervento deciso ed improcastinabile sia nel modo di produrre cibo che di distribuirlo.
In tal senso il rapporto del Focus Group PEI-AGRI ha indiscutibilmente sancito che bisogna “Ridurre l’impronta plastica dell’agricoltura”. Gli esperti del Focus Group hanno discusso di come ridurre l’impronta plastica nell’agricoltura. Hanno discusso le soluzioni esistenti per ridurre l’uso della plastica, evitare i detriti con la plastica biodegradabile, limitare la contaminazione da microplastiche, raccogliere i rifiuti in modo efficiente e riciclare la plastica.
Sia a livello europeo che ai nei vari paesi membri (per rimanere a casa nostra) è necessaria una decisa e netta presa di posizione, sia nel settore produttivo, disincentivando le produzioni che fanno uso di plastiche (serre, tunnel, pacciamature, ecc.), sia nella fase di imballaggio/distribuzione.
In Italia, il14 gennaio 2022, è entrato in vigore il DL 8 novembre 2021, n. 196, che attua la direttiva (UE) 2019/904, del Parlamento europeo e del Consiglio del 5 giugno 2019 sulla riduzione dell’incidenza di determinati prodotti di plastica sull’ambiente.
È troppo poco, non basta una direttiva e alcuni decreti legislativi per risolvere la questione; è come voler frenare una valanga con la forza delle mani.
Da un lato è necessaria una coraggiosa politica di disincentivazione/incentivazione alle produzioni che fanno usa di plastiche, sia per l’ambito industriale (chi le produce) sia in ambito agricolo (chi ne fa uso); serve un programma concreto, che potrebbe utilizzare il PNRR (tra gli altri strumenti) per far transitare l’intero settore, con premi all’abbandono ed alla conversione.
La solita solfa che le mancate produzioni protette o che fanno uso di plastiche possano trascinare nel disagio interi settori non reggono più. Oggi ci sono gli strumenti per operare una conversione decisa, aiutando per un periodo consono coloro che dovranno abbandonare questo modo di produrre ed incentivando programmi di conversione per coloro che lo ritengono opportuno.
Identica considerazione e provvedimenti vanno adottati lungo tutta la filiera del confezionamento/imballaggio/distribuzione, nonché di certe abitudini alimentari, perché l’alternativa non è l’economia di qualche settore del sistema ma l’intera sopravvivenza del genere umano.
A questo punto la palla non passa solo alla politica, è l’alibi più comodo che i cittadini, spesso dietro una tastiera, manifestano; è necessaria una presa di coscienza comune che ci deve vedere attori di proposte, azioni e di indirizzi di cambiamento.

Guido Bissanti




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