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Antichi popoli veneti e l’agricoltura

Antichi popoli veneti e l’agricoltura

I popoli Veneti, a volte indicati anche come Venetici, Antichi Veneti o Paleoveneti per distinguerli dagli odierni abitanti del Veneto, furono una popolazione indoeuropea, che si stanziò nell’Italia nord-orientale dopo la metà del II millennio a.C. sviluppando una propria originale civiltà nel corso del millennio successivo.
Caso unico tra i popoli coevi nell’Italia settentrionale, si può stabilire una corrispondenza tra la popolazione e la cultura veneta: è cioè possibile attribuire agli antichi Veneti una precisa cultura materiale e artistica, sviluppatasi nel loro territorio di stanziamento, la Venezia.
Questa condizione culturale si sviluppò durante un lungo periodo, per tutto il I millennio a.C., anche se nel tempo subì diverse influenze, per cui di questa popolazione e identità la documentazione archeologica è particolarmente ricca.

Territorio –
I Veneti si stanziarono inizialmente nell’area tra il Lago di Garda ed i Colli Euganei; in seguito si espansero fino a raggiungere confini simili a quelli del Veneto attuale, anche se bisogna considerare che la linea di costa del Mar Adriatico era più arretrata rispetto ad oggi. Secondo i ritrovamenti archeologici (che concordano anche con le fonti scritte), i confini occidentali del loro territorio correvano lungo il Lago di Garda, quelli meridionali seguivano una linea che parte dal fiume Tartaro, segue il Po e raggiunge Adria, lungo il ramo estinto del Po di Adria, mentre quelli orientali giungevano fino al Tagliamento.
Oltre tale fiume erano insediate genti di ceppo illirico, anche se fino all’Isonzo la presenza veneta era tanto forte che si può parlare di popolazione veneto-illirica.
I confini settentrionali erano invece meno definiti e omogenei; il territorio veneto risaliva soprattutto i fiumi Adige, Brenta e Piave verso le Alpi, che fungevano comunque da confine naturale. La presenza veneta sulle Alpi è attestata soprattutto nelle Dolomiti del Cadore, a Lagole.

Agricoltura –
Presso gli antichi popoli Veneti l’agricoltura rivestiva una grande importanza.
Secondo i dati ed i reperti storici si può affermare che i campi coltivati erano squadrati e circondati da alte siepi d’alberi e da un fossato per lo scolo dell’acqua piovana.
Questa caratteristica agronomica, conosciuta col nome di “campi chiusi”, è rimasta nel tempo e dura ancor oggi.
Glia agricoltori, erano soliti, prima della semina, arare i campi con gli aratri; questi erano costruiti in legno e trainati da bovini ma anche da cavalli.
La coltivazione base era costituita da molti tipi di cereali, tra i quali l’avena, il farro, il frumento, la segale, l’orzo, il miglio, e di legumi come le lenticchie e le fave che usavano per le loro minestre.
Le tecniche agronomiche adottate dai popoli Veneti consentivano l’ottenimento di abbondanti raccolti dai campi. Si trattava della tecnica del “maggese”, cioè di quella pratica in cui un anno i contadini coltivavano solo metà dei campi che avevano a disposizione, mentre gli altri campi venivano solo concimati e il terreno era lasciato “a riposo”; l’anno successivo avveniva il contrario.
Gli antichi popoli Veneti erano molto conosciuti dagli altri popoli anche per la coltivazione della vite e la produzione del vino. La pianta della vite veniva sostenuta da alberi, ad esempio, olmi, faggi, querce; conoscevano quindi già la tecnica cosiddetta della “vite maritata”.
Bisogna sottolineare comunque, che la bevanda del vino veniva consumata dalle persone più importanti, ma ricopriva anche un ruolo sacro in quanto veniva offerto alle divinità.

Documenti storici –
L’antico storico Teopompo, figlio di Damasistrato, vissuto intorno al 320 a.C., narra che gli Eneti residenti lungo l’Adriatico, quando è il momento dell’aratura e della semina, offrivano alle cornacchie doni consistenti in specie di pani e focacce, impastate molto bene. L’offerta di questi doni aveva lì obiettivo di allettare e stabilire una tregua con le cornacchie, in modo che esse non scavassero e non raccogliessero il frutto di Demetra affidato alla terra, cioè le sementi appena seminate.
Secondo Lico, che concorda con questo racconto, gli eneti portano anche cinture purporee e che gli offerenti poi se ne vanno. Gli stormi delle cornacchie restano fuori dai confini, mentre due o tre di esse sono scelte e mandate verso i messi che arrivano dalla città, per rendersi conto dell’nsieme dei doni. Queste, dopo l’esame, fanno ritorno, e chiamano le altre. Arrivano dunque a nugoli e, se assaggiano le offerte suddette, gli Eneti sanno di essere in stato di intesa con gli uccelli in questione, se invece non le curano sprezzandole come modeste, non le gustano, gli indigeni restano convinti che il costo di questo disprezzo sia per loro la fame. Se infatti i predetti uccelli non ne mangiano e, per così dire, non si lasciano corrompere, esse calano sui campi e saccheggiano la maggior parte delle sementi, scavando e cercando con rabbia tremenda.

Guido Bissanti




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