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L’Agricoltura nella antica Cina – VIII

L’Agricoltura nella antica Cina – VIII parte

Segue dalla VII parte

È importante sapere che in molte regioni della Cina settentrionale la coltivazione a ciclo continuo era divenuta la norma sin dai tempi degli Han; la rotazione delle colture, realizzata con la piantagione di leguminose come i ‘fagioli piccoli’ (xiaodou, ‘fagioli azuki’), o i ‘fagioli grandi’ (dadou, ‘fagioli di soia’), eliminò in gran parte la necessità di lasciar riposare i terreni a maggese. Jia, nei suoi documenti, descrive un sistema di rotazione delle colture completo e complesso, fornendo per ogni pianta la migliore ‘base’ (di), ossia la specie che, coltivata in precedenza, avrebbe arricchito nel modo giusto il terreno. È interessante notare come l’autore si preoccupi anche di fornire le percentuali di semina per ciascuna specie, includendo gli aggiustamenti dovuti alla qualità del terreno e al tempo della semina; un particolare interessante è costituito dal fatto che Jia Sixie non fornisce dati sui rendimenti, il che fa supporre che era più importante il concetto di fertilità globale rispetto a quello di resa.
I principî e concetti fondamentali dei sistemi di lavorazione del terreno, delineati nel Libro del Principe Miglio, erano, di fatto, il fulcro di ogni attività agricola produttiva svolta nelle aride regioni della Cina settentrionale; così i terreni pesanti e dei bassipiani dovevano essere rivoltati e drenati per impedire loro di assorbire troppa acqua e di marcire; mentre i terreni leggeri dovevano essere ben dissodati, per mantenere il più a lungo possibile l’acqua delle scarse piogge. Questo ci fa comprendere come ci si fosse addentrati dentro ben precisi criteri di pedologia e di comprensione accurata delle caratteristiche del terreno. In questo senso la capacità di agire al momento giusto e l’uso di una buona tecnica erano tutti elementi importanti, ma soprattutto occorreva mantenere il terreno ‘maturo’ o ‘ben preparato’ (shu).
In quei tempi i metodi agricoli descritti nelle Tecniche essenziali per il popolo richiedevano l’impiego massiccio di utensili a trazione animale, di manodopera e di concime. L’attrezzatura necessaria alla lavorazione della terra era costituita da un aratro di ferro con versoio regolabile, trainato da un tiro di due o tre buoi o muli (per i terreni più soffici al posto dell’aratro era consigliato l’uso di un raschiatoio, che tracciava un solco superficiale), vari tipi di erpici, anche a trazione animale, tra cui un modello con le punte di ferro per rompere le zolle, e un modello più leggero, chiamato lao, che era una sorta di graticcio formato da rami di betulla o di olmo intrecciati, che serviva a sminuzzare il terreno o a ricoprire i semi (che fungeva quasi da erpice); un rullo a trazione animale, impiegato per comprimere la neve o il gelo nel terreno, e anche per schiacciare i germogli di frumento affinché ogni pianta producesse un numero maggiore di steli; una seminatrice a trazione animale, per seminare a righe e, infine, una vasta gamma di zappe, picconi ed estirpatori per sarchiare, pulire e frantumare finemente il terreno.
Le operazioni descritte da Jia avevano quindi lo scopo della gestione dell’umidità al fine di mantenere il terreno umido ‒ ma non bagnato ‒ dal momento della semina sino al raccolto e di sbriciolarne la superficie, sino a ottenere quello che gli agronomi moderni chiamano ‘pacciame polveroso’, per ridurre l’evaporazione.

Così nel periodo autunnale, dopo le piogge, si usava arare il terreno in profondità e poi lo si lavorava con un erpice dentato allo scopo di rompere le zolle prima del gelo invernale, sbriciolando così il terreno ed eliminando una parte degli insetti o di altri piccoli organismi; alla fine dell’inverno si portava e si mescolava col terreno il letame trasportato con i carri; a partire dal primo mese lunare (che corrisponde nel nostro calendario alla fine di gennaio o all’inizio di febbraio) si effettuavano arature superficiali, che producevano solchi non molto larghi, ciascuna delle quali era seguita da molte erpicature incrociate, ottenute trascinando un erpice a graticcio prima lungo i solchi e poi in senso perpendicolare agli stessi. Le piante come la canapa e il coriandolo erano seminate sparpagliandone i semi molto piccoli nei solchi superficiali e ricoprendoli successivamente con l’erpice a graticcio, mentre la maggior parte delle piante coltivate e tutti i cereali venivano seminati a righe, conficcati in profondità lungo le creste e ben spaziati gli uni dagli altri.
Così la seminatrice serviva a risparmiare le sementi e a non disperdere l’umidità o il fertilizzante. Il metodo della semina a righe era consigliato già nelle Primavere e autunni del Signor Lü, di cui si riporta una traduzione:
“Le messi seminate a righe giungono prima a maturazione, perché nessuna pianta intralcia la crescita di quelle vicine. Traccia con cura le righe orizzontali, realizza con precisione quelle verticali, perché se le righe saranno dritte, il vento vi passerà in mezzo senza fare danni” (Lüshi chunqiu, p. 67).
Con questo sistema si otteneva ovviamente una migliore lavorazione del terreno:
“Non starti a chiedere quante volte occorre zappare [il panìco]; quando hai terminato il giro del campo, ricomincia e non fermarti soltanto perché non vi sono più erbacce, neppure per poco tempo. (Zappare non serve soltanto a eliminare le erbacce, ma mantiene il terreno maturo, shu, e permette di ottenere spighe rigonfie, con pula sottile, che non si sbriciolano. Se avrai zappato il tuo campo dieci volte, avrai ‘granelli da otto decimi’) [il peso del macinato raggiungerà gli otto decimi di quello dei granelli nella spiga]”. (Qimin yaoshu jinshi, 3.10, p. 2)
L’avvento della seminatrice è stata la risposta più logica ai problemi della coltivazione in un clima secco. Dai documenti ritrovati, il primo esemplare conosciuto risale ai Sumeri e diversi tipi di seminatrice sono stati largamente utilizzati per secoli in tutta l’Asia occidentale e meridionale, oltre che in Cina.
Il modello di seminatrice utilizzato in Cina era al tempo stesso semplice, efficace e versatile (per es., la tramoggia e i pattini per la semina potevano essere, se necessario, rimossi dal telaio e sostituiti da lame di zappa); questa era fabbricata quasi interamente in bambù, priva di componenti metallici, a eccezione dei pattini per la semina, e dotata di un meccanismo di distribuzione realizzato, nei modelli più complicati, con uno spago, un pezzo di canna e un ciottolo. Di fatto la seminatrice cinese non aveva punti deboli e per questo motivo rimase in uso sino all’avvento dell’agricoltura meccanizzata.
È interessante, a tal proposito, mettere a confronto l’esperienza cinese con i primi tentativi occidentali di realizzare una macchina seminatrice, effettuati a Venezia e a Bologna nel XVI secolo. È probabile che gli ingegneri italiani non sapessero nulla dei modelli di seminatrice usati da tempo immemorabile in Asia; il loro scopo era quello di tentare di migliorare la semina a mano dei singoli granelli. Il metodo europeo di ricerca delle soluzioni, basato su un approccio ingegneristico e non artigianale, era profondamente diverso da quello asiatico; fin dall’inizio gli inventori europei s’indirizzarono verso la realizzazione di macchine a ruote dotate di un meccanismo a ingranaggi per la distribuzione dei semi, ma i problemi tecnici posti dal progetto si rivelarono insormontabili per gli ingegneri dell’epoca e, nonostante il vivo interesse per i vantaggi della coltivazione a righe diffuso tra gli agronomi, l’uso della seminatrice si affermò in Occidente soltanto durante il XIX secolo.

Guido Bissanti

Segue IX parte




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