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Come Ripristinare la Fertilità dei Suoli

Come Ripristinare la Fertilità dei Suoli

La fertilità biologica del suolo può essere definita come la quantità di organismi viventi nel suolo e il loro potenziale di attività ma anche dal contenuto di sostanze utili alla loro vita e agli scambi energetici che avvengono tra essi; è espressa, in definitiva, dal funzionamento dei servizi ecosistemici che il suolo garantisce.
È rappresentata dal grado di fertilità che un suolo riesce a esprimere nei confronti dei cicli biogeochimici degli elementi chimici e del metabolismo degli elementi nutritivi del suolo nei confronti del sostegno alla pianta.
È fortemente correlata al quantitativo di sostanza organica presente e al suo livello di stabilità nonché al livello qualitativo e quantitativo della biodiversità.

I motivi fondamentali di perdita della fertilità biologica sono identificabili nelle principali cause di degrado cui va incontro il suolo quali:
1) erosione;
2) perdita di sostanza organica e fertilità;
3) frane;
4) cementificazione;
5) salinizzazione;
6) compattazione;
7) inquinamento.
A loro volta ciascuna di queste pressioni può essere declinata in una miriade di cause: prendiamo ad esempio la voce «inquinamento», che può avvenire per contaminazione del suolo da sostanze chimiche indesiderate quali metalli pesanti, oppure agrofarmaci, eccesso di nutrienti, ma anche patogeni, immissione di organismi alieni, radioattività, ecc.
In tutto il pianeta, soprattutto dove viene applicata l’agricoltura di tipo “industriale” la perdita di fertilità biologica è molto più frequente di quello che si potrebbe credere.
Altra considerazione che va assolutamente sottolineata riguarda il servizio ecosistemico della formazione di suolo che è garantito dai microrganismi: per avere la formazione di 1 cm di suolo fertile occorrono 1.000 anni, questo implica che il suolo è una risorsa non rinnovabile che va protetta e conservata.
In questo contributo vedremo allora come recuperare biologicamente un suolo e quindi la sua fertilità.
Per poter operare in questo senso è necessario adottare dei sistemi agricoli che possono essere ricondotti al concetto di agricoltura rigenerativa.
L’agricoltura rigenerativa è una tecnica colturale che permette di beneficiare delle proprietà della terra, senza sfruttarla o impoverirla. Ritornare a un’agricoltura naturale non ha solo benefici economici, ne ha anche dal punto di vista qualitativo.
Ogni anno, solo in Italia, a causa dell’abbandono della montagna da parte dei contadini e dell’incremento della cementificazione, si riduce la superficie agricola. D’altra parte, i terreni agricoli più facilmente coltivabili diventano più poveri a causa dello sfruttamento intensivo.
A partire dal secondo dopoguerra, con il processo di industrializzazione dell’agricoltura conosciuto come rivoluzione verde (conseguito soprattutto al Trattato di Roma del 1960), si è assistito ad un incremento impressionante di produttività dei terreni agricoli. Nella misura in cui si duplicavano le rese, però, i suoli venivano dilavati, erosi, demineralizzati e resi sostanzialmente sterili dal massiccio uso di irrigazione, prodotti di sintesi e da una meccanizzazione distruttiva. Il suolo è un ecosistema delicato e molto complesso, una rete di relazioni strettissime tra piante, minerali, animali e microorganismi. L’equilibrio di questo sistema viene fortemente compromesso dalle pratiche dell’agricoltura chimica e industrializzata e, per recuperarne l’efficienza e la funzionalità, bisogna agire sui tre componenti fondamentali del suolo: i minerali, la sostanza organica e la microbiologia. Per ciascuno di questi componenti abbiamo a disposizione diverse tecniche, che variano a seconda delle condizioni ecologiche dell’azienda e delle risorse locali disponibili.
Per di più i prodotti agricoli ricavati da suoli così sfruttati hanno un minore valore nutritivo ed organolettico, contribuendo ad un altro “inaridimento” che è quello della salubrità alimentare.
Occorrono parecchi anni per riportare un suolo agricolo a buoni livelli di fertilità e di vitalità biologica, ma intraprendendo un cambiamento verso l’agricoltura organica già dal secondo anno si notano miglioramenti alla struttura e porosità del terreno. Nel processo di rigenerazione del suolo è importante modificare la meccanizzazione in azienda. Nelle realtà produttive, “ecologicamente corrette” dobbiamo relegare l’aratro alla sola rottura dei medicai, perché il rivoltamento delle zolle provoca uno sconvolgimento dell’equilibrio del suolo, e il passaggio del vomere sigilla la porosità naturale del terreno creando una suola di lavorazione. Tradizionalmente la terra viene poi affinata, seminata e infine rullata. In questo modo si creano le condizioni momentanee per la germinabilità dei semi, ma si “condanna” il terreno a plasticità e compattazione crescenti di anno in anno. La soluzione proposta dall’industria è l’impiego di trattori sempre più potenti e mezzi sempre più invasivi. Una parziale soluzione a tutto ciò è data dall’uso di macchine poco impattanti, come ripuntatori con ancore molto sottili che lavorano il terreno solo sotterraneamente senza sollevarlo. A differenza di quello che ci insegnano nelle facoltà di agraria le macchine non migliorano mai il suolo, ma lo piegano alle esigenze momentanee della produzione agricola compromettendone però la struttura e funzionalità sul lungo termine.
Un altro criterio per aumentare la porosità e diminuire la plasticità del suolo è quello di usare le cover crops, specie annuali di differenti famiglie (leguminose, graminacee, brassicacee) le cui radici lavorano a profondità diverse creando le condizioni per la successiva buona affermazione delle colture produttive. Inoltre, una volta sfalciate, le cover crops restituiscono al terreno sostanza organica e minerali contribuendo alla sua rigenerazione.
Questo modello è applicabile perfettamente in aziende comprese tra i 2 ed i 200 ettari. Ci rientra quasi tutta l’agricoltura italiana.
Al di la dei sentimentalismi questa è l’unica via del futuro se non vogliamo ottenere un disastro eco sistemico di proporzioni bibliche.
Purtroppo dopo anni di “lavaggio” delle menti verso questa direzione per gli agricoltori lo sforzo maggiore è acquisire una nuova prospettiva, capire che le azioni che compiono devono servire sì a dare un reddito, ma anche a mutare uno stato di cose che se perdurasse ci porterà ad un fallimento senza precedenti. Per esempio, è difficile spiegare che le condizioni di salute di una coltura vanno perseguite nella ricchezza e vitalità del suolo, e non nella cura dei sintomi delle malattie con l’uso di agrofarmaci.
Nei lunghi anni di ricerca all’Università di Palermo siamo sempre riusciti a dimostrare, con esperienze di pieno campo come questa verità sia universale ed unica. Le aziende agricole vengono orientate ad acquistare questi veleni dei quali, oltre al danno evidente per l’ambientale e la salute umana, non si osservano mai i danni “accessori”. Infatti gli agro farmaci (o fitofarmaci o pesticidi, come li vogliamo definire) intossicano e debilitano le piante e provocano squilibri pesanti nelle popolazioni di insetti, con conseguenze imprevedibili per gli anni successivi. In questo modo si reitera un meccanismo perverso che vede i contadini incapaci di affrancarsi dal pacchetto tecnologico proposto dall’industria.
La cosa che spesso non fa riflettere l’agricoltore (che spesso non riesce ad orientarsi in questa agricoltura “moderna” ma poco naturale) è che dal punto di vista economico possiamo parlare di un risparmio, più che di un costo, perché si parte dall’eliminazione di tutti i prodotti di sintesi, che nella nostra agricoltura rappresentano il 20-40% dei costi totali. Per quanto riguarda i nostri corsi di formazione, il costo non supera mai i 180 euro per i tre giorni, ma spesso riusciamo a tenere le quote più basse grazie al contributo di fondazioni e istituzioni locali.
Per questo motivo è necessario iniziare a creare dei corsi di Agricoltura Rigenerativa in cui non dovrebbe esistere Stato del Pianeta che non investa ingenti somme se non vuole condannare se stesso ed il Pianeta alla fame (quella stessa che con falsi proclami vogliono combattere le multinazionali dei prodotti e della disinformazione).
Ovviamente questi corsi dovrebbero prevedere il perfetto abbinamento tra teoria e pratica. È giunto il momento di finirla con i finti corsi (di sola teoria) spesso tenuti da persone di dubbia preparazione.
Per attuare un’agricoltura rigenerativa non bisogna però guardare solo alla sostenibilità ecologica; bisogna affrontare anche quella economica. Infatti bisogna sempre partire da un’analisi economico-finanziaria dell’azienda basata sullo studio dei bilanci degli ultimi anni. Bisogna capire come l’impresa spende i suoi soldi, e quali sono le voci di spesa più consistenti: quasi sempre ci si accorge che le uscite destinate all’acquisto di fertilizzanti e agrofarmaci rappresentano un valore che contribuisce fortemente a determinare la sofferenza dell’azienda.
Tale fattore è, allo stesso tempo, incongruente anche dal punto di vista ecologico perché l’agricoltura, essendo attività eco sistemica, dovrebbe emulare i principi dell’ecologia (celle che producono energia e non l’assorbono) invece le nostre aziende agricole fanno quasi sempre il contrario.
Per questo motivo per poter applicare i concetti dell’agricoltura rigenerativa, dobbiamo raccogliere preventivamente, per ogni azienda, le caratteristiche ecologiche dell’area e dati specifici, come la topografia, l’orografia, le tecniche colturali usate e il parco macchine a disposizione. Ovviamente vanno studiati con attenzione i suoli, anche attraverso prelevi di diversi campioni da sottoporre ad esame chimico, fisico e, non ultimo, cromatografico. La cromatografia è un’analisi qualitativa del terreno che mostra, con una sorta di foto, la relazione tra sostanza organica, minerali e attività biologica di un terreno. Il risultato mostra spesso suoli compattati, demineralizzati e privi di attività vitalità; il confronto con le analisi di terreni fertili e vitali è uno shock per gli agricoltori, che si rendono conto della dannosità delle tecniche solitamente impiegate.
Tutti questi dati, combinati con un’attenta lettura delle analisi fisico-chimiche dei suoli, ci indicano la strada da seguire nel presentare all’azienda un piano di lavoro che interviene su molteplici aspetti: programmazione colturale, meccanizzazione, fertilizzazione, nutrizione e difesa delle piante, sistemazioni idrauliche. Nel corso dell’anno va poi monitorato continuamente il processo produttivo con visite di campo, e il piano di lavoro viene confermato o riadattato in base alle risposte ottenute.
A questo punto la questione è la seguente: vogliamo continuare ad investire in veleni o in risorse umane, formando soprattutto i giovani Dottori Agronomi e Dottori Forestali a questa logica?
La risposta è scontata ma con quale Politica parliamo?

Guido Bissanti



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