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La perdita di biodiversità riduce la produttività delle piante rimaste

La perdita di biodiversità riduce la produttività delle piante rimaste

Come ho riportato nel mio ultimo libro “Come il Titanic?” la biodiversità è la macchina energetica del pianeta. Ogni pezzo svolge un ruolo (servizio) ed al diminuire dei “pezzi” diminuisce l’efficienza dell’intero sistema.
Questa affermazione, che viene dimostrata da un punto di vista termodinamico, trova sempre più riscontri in studi scientifici che analizzano i benefici che porta la biodiversità degli ecosistemi alla produttività delle piante. Tali studi hanno cercato di comprendere gli effetti negativi della perdita di biodiversità.
In questa direzione sono stati sviluppati dei modelli teorici per quantificare l’influenza della biodiversità sulla produttività dell’impianto di singoli livelli di piante e di comunità.

Alcuni scienziati* hanno fatto analisi sulla foresta boreale dell’Alaska seguendo la teoria dell’”efficienza di nicchia” e tenendo conto dell’Indice di Impatto della Produttività (PII). Dall’analisi è emersa una diminuzione dello 0,23% di produttività di ogni singolo albero, per ogni riduzione dell’1% della diversità complessiva dell’impianto.
Per tale ricerca sono state analizzate 283 specie vegetali presenti nella regione; è emerso che le grandi piante legnose hanno dimostrato di avere valori di PII maggiori rispetto alle altre specie.
Tali considerazioni sono forse le uniche che possono sollecitare l’assopimento della Politica mondiale: infatti sono notevoli le implicazioni anche di tipo economico, forse le uniche in grado di fare breccia nelle decisioni politiche a favore del risparmio energetico, della lotta ai cambiamenti climatici e alla povertà.
Ogni specie vivente che perdiamo va a decremento della ricchezza e del benessere dell’intero pianeta e a nulla possono servire le alchimie politiche o la ricerca di nuove tecnologie innovative se queste vanno ad incidere sul principio cardine: la conservazione della biodiversità.

Guido Bissanti

* Ricerca condotta da un team di ricercatori della West Virginia University, del Dipartimento dell’Agricoltura degli Stati Uniti, dell’Università dell’Alaska Fairbanks, dell’Università del Minnesota e dell’Università di Western Sydney. Lo studio è stato pubblicato sulla rivista Proceedings of National Academy of Sciences.




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