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Pesticidi – paghi 3 prendi 1

Pesticidi – paghi 3 prendi 1

Per i romantici dell’Estimo, una materia tristemente caduta in disgrazia ma vera valuta di riferimento per tutte le questioni economiche, esisteva una volta il costo opportunità.
Secondo l’Estimo “il costo opportunità è ciò a cui si deve rinunciare per effettuare una scelta economica ed è pari al valore della migliore alternativa. Compiere una scelta determina un costo in termini di tempo o di denaro (o entrambi), e il costo opportunità rappresenta la scelta migliore tra le possibili”.
Il costo opportunità è quella grandezza o parametro che si prende in analisi ogni qualvolta si deve fare una scelta, spendendo un corrispettivo in denaro, e valutandone poi le ricadute economiche.
Il costo opportunità ci dice se l’alternativa a quel costo è più fruttuosa o meno della nostra scelta.
Quindi se una scelta ci procura un beneficio minore rispetto all’alternativa avremo un costo opportunità negativo e quindi non percorribile.
La scelta dunque tra le due strategie deve tener conto non solo dei costi monetizzabili, ma anche di quelli derivanti dalla rinuncia a sfruttare le opportunità perse. Oppure in sintesi il costo dell’utilizzo di una data risorsa per un determinato scopo, misurato col valore che avrebbe per la migliore alternativa tralasciata.
In estimo abbiamo imparato così che ogni scelta va valutata con questo criterio e, quindi, non ultimo il caso del valore del costo opportunità dell’uso dei pesticidi rispetto ad una opzione zero: cioè il non uso.
Chiaramente l’analisi di merito in questa materia è molto più complessa in quanto le variabili sono innumerevoli e di non facile ponderazione economica.
Pur tuttavia esistono già dei dati e delle analisi ufficiali a cui appellarsi, da mettere nella contabilità, e su cui calcolare se il costo opportunità nell’uso dei pesticidi sia positivo o negativo.
Partiamo subito da una ricerca pubblicata (già nel 2016) sulla Sustainable Agriculture Review durante la Pesticide Action Week.
A firmare lo studio sono stati due ricercatori dell’Istituto francese per la ricerca agricola (INRA), che hanno preso in esame le esternalità generate dall’uso di fitofarmaci.
I due ricercatori per arrivare alle conclusioni, hanno consultato e messo a sistema 61 pubblicazioni scientifiche. L’analisi si è concentrata su quattro tipi di costi che l’industria tende a non inserire nelle sue valutazioni: normativi (decontaminazione, sorveglianza), per la salute umana, per l’ambiente e “difensivi”. Quest’ultima categoria comprende il costo aggiuntivo che i consumatori di alimenti biologici sono costretti a pagare per consumare i prodotti ottenuti senza pesticidi.
Sono sorprendenti, in particolare, i costi relativi per la salute umana: secondo questa ricerca, se si tiene conto del prezzo per le cure mediche a seguito degli effetti dell’esposizione cronica ai pesticidi, solo negli Stati Uniti sono stati spesi 15 miliardi di dollari nel 2005.
In aggiunta, molti costi ambientali, per gli animali, le piante e le forme di vita microbica nel terreno sono difficili da quantificare e non sono mai stati adeguatamente valutati. Uno studio americano del 1992 riportava una stima (probabilmente conservativa) di 8 miliardi di dollari.
Inoltre, nel primo decennio di questo secolo, i costi normativi associati ai pesticidi negli Stati Uniti ha raggiunto i 4 miliardi, secondo lo studio dell’INRA. Se fossero state rispettate tutte le procedure regolamentari, la cifra sarebbe lievitata a 22 miliardi. A livello globale, viceversa, il costo aggiuntivo per i consumatori interessati ad evitare i pesticidi (sostenuto pagando un sovrapprezzo per alimenti biologici) si attesterebbe a 6,4 miliardi di dollari (dati del 2012).

La sintesi della ricerca si chiude poi con un dato che preso già da solo è eclatante: in tutto il pianeta i danni causati dall’uso di queste sostanze varrebbe 39 miliardi, solo al 1992, per un rapporto costi-benefici di 1:0,7. Questo significa che i vantaggi finanziari ottenuti utilizzando prodotti fitosanitari, in termini di produttività agricola, sono il 30% più bassi dei costi esterni che generano (compresi i millantati incrementi di produttività).
Tra l’altro questo dato va aggiornato ad oggi. Basti pensare che i dati recenti dell’ISPRA (2018) ci dicono, secondo questo rapporto, che “dopo oltre dieci anni di diminuzione, sono tornate ad aumentare in Italia le vendite di pesticidi, che nel 2015 sono state pari a 136.055 tonnellate, comunque inferiori alle 150.000 del 2002 (anno in cui si è avuto il massimo). Unico dato che fa ben sperare, invece il calo delle vendite dei prodotti tossici e molto tossici, che nel periodo di riferimento segnano un -36,7% rispetto al massimo di oltre 5.000 tonnellate raggiunto in passato”.
Basterebbero già questi dati per sollecitare i governi nazionali ad attuare corrette politiche agroecologiche per far si che si inverta questo costo opportunità negativo.
Ma a questo dobbiamo aggiungere quegli effetti poco valutati sulle ricadute che i pesticidi stanno operando e con una proiezione oramai a breve termine sull’ambiente.
Secondo la IUCN (Unione internazionale per la conservazione della natura) si sta assistendo, nella sola Europa, ad una perdita degli Habitat (che sono le matrici della vita e di tutela della biodiversità) senza precedenti. Questa perdita è dovuta a vari fattori, tra cui l’uso dei pesticidi è uno dei più rilevanti.
Si discute spesso, ed in maniera molto marginale, della questione della diminuzione delle api o di altri pronubi ma questa è solo la punta dell’iceberg di un ecosistema sempre più povero e quindi meno efficiente e (per i sostenitori delle rese agricole tout court) meno produttivo.
La perdita di biodiversità incide infatti sulle rese agricole; un dato che era noto già agli inizi del 1980, con le mie ricerche sulla biodiversità delle popolazioni di fitofagi e parassitoidi. Dato che le multinazionali si affrettano a smentire con pseudo ricerche e con specchi per le allodole su rese produttive falsate di analisi sulle efficienze reali degli ecosistemi prima e dopo l’uso di queste sostanze tossiche.
Alcuni scienziati, come riportato in questo contributo, hanno fatto analisi sulla foresta boreale dell’Alaska seguendo la teoria dell’”efficienza di nicchia” e tenendo conto dell’Indice di Impatto della Produttività (PII). Dall’analisi è emersa una diminuzione dello 0,23% di produttività di ogni singolo albero, per ogni riduzione dell’1% della diversità complessiva dell’impianto.
Per tale ricerca sono state analizzate 283 specie vegetali presenti nella regione; è emerso che le grandi piante legnose hanno dimostrato di avere valori di PII maggiori rispetto alle altre specie.
La riduzione e la perdita di biodiversità degli habitat, dovuta anche all’uso dei pesticidi, incide quindi, ed ulteriormente, sulle rese produttive a cui dobbiamo poi far fronte con problemi di mancanza di impollinazione, di riduzione dei sistemi di micorrize, di entomofagi utili ecc..
Un circolo vizioso a cui negli ultimi tempi si vuole sopperire specializzando ancora di più alcune colture agricole (vedi meleti, oliveti, frutteti, ecc.) non comprendendo che è proprio qui il male di questa epoca.
La Vita basa la sua ricchezza, la sua potenza, i suoi rendimenti, sulla massima espressione di diversità dei suoi sistemi e sulla loro reciproca interazione.
La Vita si basa infatti sulla epistemologia della complessità, il cui padre è il premio Nobel per la chimica del 1960 Ilya Prigogine ha spiegato così bene ma forse in maniera inascoltata.
Ovviamente tra l’epistemologia della complessità e quella del riduzionismo (da cui è nata la “moderna” agricoltura) esiste un abisso che non può essere colmato se non si riporta alla base della formazione dei nuovi operatori agricoli, dei tecnici del settore (Dottori Agronomi e Dottori Forestali in testa) e degli operatori delle Decisioni Politiche questo nuovo linguaggio che però, come amava dire il Mahatma Gandhi, è antico come le montagne, solo che l’Umanità in questo buio periodo della storia ha voluto tentare il volo di Icaro.

Guido Bissanti




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