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Zone Umide e agricoltura: un binomio da riconnettere

Zone Umide e agricoltura: un binomio da riconnettere

Le zone umide, cioè quegli ambienti naturali dove insiste una particolare compresenza di terreno e acqua e quindi di un particolare ecosistema, sono in pericolo.
Metà delle zone umide del mondo sono state perse negli ultimi tempi e la maggior parte delle distruzioni sono avvenute negli ultimi 50 anni. Le cause principali sono: la distruzione diretta, le specie aliene, l’agricoltura e l’industria.
Il riconoscimento ufficiale all’importanza di queste aree si è avuto con la Convenzione internazionale di Ramsar (Convention on Wetlands of International Importance), firmata il 2 febbraio 1971, dove per “zone umide” s’intendono «…le paludi e gli acquitrini, le torbiere oppure i bacini, naturali o artificiali, permanenti o temporanei, con acqua stagnante o corrente, dolce, salmastra, o salata, ivi comprese le distese di acqua marina la cui profondità, durante la bassa marea, non supera i sei metri.» I siti che possiedono tali caratteristiche e che rivestono una importanza internazionale soprattutto come habitat degli uccelli acquatici, possono essere inclusi nella “lista delle zone umide di importanza internazionale” approvata dalla convenzione stessa.
I siti Ramsar individuati in Italia sono attualmente 51 per una superficie totale di 60.052 ettari.
Alcune aree poi, per le loro minori estensioni, rischiamo di subire maggiormente gli effetti di un “uso del territorio” fuori dalle regole della Natura.
Queste aree, conosciute come Zone Umide Minori (ZUM), sono degli habitat che possono svolgere la funzione di stepping-stone; le zone umide minori sono degli hotspots di biodiversità e luogo essenziale per un gran numero di specie rare e minacciate di estinzione.
Nel 2008 un’indagine ha censito ben 305 ZUM italiane, naturali (stagni, piccoli laghi, foci fluviali, torbiere ecc.) ed artificiali (risaie, saline, fossati difensivi di edifici storici, vasche per l’ittocoltura ecc.).
Per comprendere lo stato di salute delle Zone Umide Minori è stato creato un indice di vulnerabilità; l’analisi svolta in Italia su queste aree ha rilevato, purtroppo, che sono gravemente minacciate da seri fattori di rischio di tipo naturale (riscaldamento globale, quindi maggiore siccità e tendenza al prosciugamento di molte ZUM) e da disturbi antropici (bonifiche agricole, inquinamenti, nuove strade, nuovi insediamenti industriali e edilizia, fenomeno, quest’ultimo, particolarmente preoccupante in Sardegna).
Purtroppo questo stato dell’arte coinvolge l’intero pianeta tanto che il 2 giugno 2015 a Punta del Este, in Uruguay, il Direttore Generale di IUCN, Inger Andersen, rivolgendosi ai partecipanti della cerimonia di apertura del dodicesimo meeting della Conferenza delle Parti (COP) ebbe ad affermare: “Dobbiamo far sì che la Convenzione di Ramsar sia un catalizzatore del cambiamento, e che il cambiamento sia abbastanza efficace da fermare e invertire il processo di perdita e distruzione delle zone umide.”
Da quel giorno sono passati pochi anni ma la condizione delle aree umide è ancora in grave declino.
Ricordiamo che le zone umide sono sistemi in cui vi è scambio e passaggio di elementi ed organismi, ambienti fondamentali per la sopravvivenza sia di specie molto localizzate ed endemiche, sia di specie migratrici che ivi trovano rifugio e risorse trofiche, in cui agiscono diversi fattori di pressione derivati da un’ampia tipologia di attività antropiche fra cui l’urbanizzazione, l’agricoltura, l’allevamento, il turismo, la produzione di energia elettrica, l’industria oltre che gli effetti dei cambiamenti climatici.

Le zone umide pagano un prezzo troppo salato, soprattutto per le interferenze dei sistemi agricoli che, ovviamente, per estensione e contiguità, svolgono un ruolo determinante su queste aree.
La scomparsa o la riduzione delle zone umide ha conseguenze ecologiche, e quindi economiche disastrose; vanno ad interrompersi intere catene trofiche con ricadute sulla capacità degli ecosistemi (e al loro interno dell’agricoltura) di rigenerarsi. E senza rigenerazione degli ambienti l’intera vita sul Pianeta è in serio pericolo.
Tra i maggiori responsabili di questo stato delle cose c’è, ovviamente, un certo tipo di agricoltura.
L’agricoltura degli ultimi decenni è stata pesantemente condizionata da un modello produttivo fuori dalle regole e, quindi, dalla salvaguardai della Natura. Ci si è preoccupati di reddito netto dell’agricoltore, di questioni di mercato, di sistemi di qualità, fuori dalla reale qualità dell’ecosistema, implementando un degrado dell’ambiente senza precedenti.
Da anni, a partire da Agenda 2030 (settembre 2015) ed ultimamente col Green Deal europeo (dicembre 2019), e al suo interno, col Farm to Fork del mese di maggio del 2020, si è compresa tale gravità.
L’insegnamento che ci viene da tutto questo è, prioritariamente, di ordine Etico.
Non si può fare alcuna attività umana senza il massimo rispetto delle regole della Natura e quindi senza la tutela dei suoi spazi.
Abbiamo interferito, e purtroppo continuiamo a farlo, sulla natura, sui suoi spazi, sulle sue regole, sulle sue necessità, ipotizzando una strada alternativa.
La risposta è che non c’è alternativa: non c’è tecnologia, sistema produttivo, modello di sviluppo,
Prima ancora di cambiare il nostro rapporto con le cose che ci circondano dobbiamo cambiare il nostro modo di percepirle e di assumerne coscienza.
In atto c’è una specie di attrito e vedute tra alcuni operatori del mondo agricolo e i comuni cittadini. Chi chiede il rispetto delle regole di produzione, chi solleva questioni di insostenibilità economica ad un cambiamento oramai necessario.
È un modo di pensare ancora parziale e distorto. Le leggi della natura ci dicono che per stare meglio bisogna agire secondo le sue regole. L’agricoltura, tra le tante attività, deve comprenderlo; una comprensione che non sta solo sulle spalle di coloro che producono ma di tutti noi che consumiamo.
Esiste infatti un modo “etico” di nutrirsi e di consumare che deve accordarsi col modo di produrre cibo: primario diritto di ogni persona.
La direzione intrapresa si chiama, per il settore agricolo, agroecologia.
L’agroecologia, con le sue regole, rappresenta oggi l’unica strada da percorrere, in quanto la sua visione, le sue regole, il suo modo di essere, sono le uniche che vanno d’accodo con i principi della natura, ed al suo interno, di quelle aree, come le Zone Umide, o di altri habitat particolari senza i quali non ha più senso la parola sviluppo o storia futura.
Qui però la politica sia a livello europeo con la PAC (Politica Agricola Comune) ed il PSR (Programma di Sviluppo Rurale), che a livello nazionale e regionale devono rivedere globalmente il loro approccio.
La strada è ancora lunga in quanto perché va maturata preliminarmente a livello di come percepiamo l’ambiente che ci circonda e come dobbiamo promuovere e sostenere (anche economicamente) persone e processi.
I mercati, gli SPREAD, i valori monetari, gli indici di borsa, ecc. ancora oggi non hanno un habitat ecologico ma dalla salute degli habitat naturali dipende tutto il loro ed il nostro futuro.

Guido Bissanti




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