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Inesorabile declino della civiltà occidentale

Inesorabile declino della civiltà occidentale

Con Civiltà Occidentale si intende un’area geografica e culturale comprendente grosso modo l’Europa e, in senso più esteso, tutti quei paesi europei ed extraeuropei che oggi presentano tratti culturali, economici, commerciali o politici comuni.
Tali tratti culturali si sono gradualmente generati e consolidati sulla base di vari momenti storici che, dalle origine greco-romane, arrivano fino all’illuminismo e poi, attraverso il positivismo, ai giorni nostri.
Una civiltà possibile finché il Pianeta è stato luogo di espansione e di esportazione del suo credo culturale, economico, commerciale e politico.
Una civiltà che non aveva mai pianificato un domani possibile, così come al tempo della dominazione romana il suo decadimento fu la conseguenza di un Impero più grande della sua capacità di gestirsi.
Con un comportamento simile, la civiltà occidentale ha ricalcato, pur con le ovvie differenze storiche e geografiche, quest’antico difetto; un difetto di presunzione e, spesso, di arroganza, nel ritenere valido il proprio modo di pensare; vera e degna di essere esportata la propria identità, fino a celebrare gli eccessi perpetrati tra le due guerre mondiali ed i genocidi in nome di un colonialismo economico e commerciale spesso spietato e senza regole.
Alla fine del XX secolo però tutti i dati e le emergenze create da questa civiltà avevano fatto comprendere che per questa via non c’era più futuro. Un secolo dove una globalizzazione, aspettata da molti operatori finanziari come l’affermazione massima del proprio credo e dei propri obiettivi, aveva posto invece concrete ed irrisolvibili questioni dalle logiche del pensiero occidentale.
Sembrerebbe paradossale ma è proprio la globalizzazione ad aver iniziato a presentare i conti alla civiltà colonialista occidentale e ad aver mostrato una nuova equazione.
In questo nuovo scenario di interdipendenza delle politiche nazionali e delle loro ricadute, sono emerse, con ritmo sempre più crescente, quasi esponenziale, una serie di paradossi culturali ed economici su cui, per secoli, abbiamo basato (noi occidentali) quasi ogni credo.
Così la globalizzazione e le emergenze sociali ed ambientali, sempre più evidenti, ci stanno indicando non tanto un futuro carico di incognite ma soprattutto un futuro non possibile e non idoneo ad ospitare più questo modello di civiltà. È una verità non solo e tanto filosofica quanto soprattutto matematica (e la matematica non è un opinione); ogni anno il famoso Earth Overshoot Day, il giorno in cui il fabbisogno umano di risorse eccede la capacità rigenerativa del pianeta, cade sempre più in anticipo.
Secondo i calcoli del Global Footprint Network, già nel 2012, per rinnovare le risorse che bruciamo nel corso dei 12 mesi, ci volevano almeno un pianeta e mezzo: “Di questo passo, prima della metà di questo secolo, ogni anno consumeremo il quantitativo di risorse prodotto da due pianeti”.

A dispetto del protocollo di Kyoto, degli Accordi di Parigi, di Agenda 2030 (al vero ancora in gran parte da attuare) non riusciamo ad invertire questo processo; perché?
La risposta è più semplice di quello che ci si possa aspettare.
Il nostro modello culturale, economico, commerciale o politico non è conforme o, se preferite, sincrono ai principi del Pianeta e dalla sua Natura.
Non è solo e tanto un problema di quanto consumiamo ma di come ci rapportiamo all’economie dell’ecosistema, alle sue regole, ai suoi principi.
Il nostro modello di consumo ed utilizzo dei beni del Pianeta non segue le sue regole. Il nostro modello di produzione agricola non risponde a principi ecologici ma a logiche di mercato; il nostro sistema industriale non si basa sulle risorse rinnovabili ma, spesso, su falsi principi di sostenibilità; il nostro sistema di trasporto e di mobilità non è supportabile da nessun pianeta, e così via.
Non c’è posto più per questo tipo di civiltà, costruita su grandi megalopoli ed immense baraccopoli, su scambi commerciali insostenibili, su modelli di produzione e di sfruttamento delle risorse miopi ed improponibili.
A scanso di equivoci, non è in discussione il benessere sociale di una civiltà; a prescindere che questo modello sociale abbia generato pochi ricchi e troppi poveri ed incredibile sofferenza, non si paventa la fine della civiltà ma di questo modello di civiltà.
Non siamo alla fine della storia ma alla fine della storia di questa civiltà.
Non si prospetta un ritorno ad un medioevo di povertà ed ingiustizia, anzi ci si deve proiettare ad un’epoca di reale benessere, basato sulla giustizia geografica ed ecologica dei propri comportamenti.
Per fare questo vanno cambiate molte regole: dall’illusione di un mercato libero che non risponda a principi etici (che è una utopia termodinamica) ad un sistema sociale e commerciale a raggio più corto, a modelli politici ed economici basati sulla stessa efficienza di quelli ecologici, che basano la loro forza e stabilità sulla diversità, sulla compartecipazione, sulla condivisione, sulla corresponsabilità.
Tutto questo ci fa comprendere che con la fine della civiltà occidentale si sta decretando la morte graduale del capitalismo, così come oggi è strutturato, a favore di un modello di Economia Circolare che contiene in se una conversione al modo di pensare ai consumi, agli scambi, agli utili ed ai rapporti di ricchezza, totalmente diversi.
Si configura, ovviamente, un lungo (ma breve storicamente) periodo di transizione. Un cambiamento non indolore né tantomeno agevole e scontato.
Qual è il catalizzatore affinché questo accada in maniera più breve possibile e più virtuosa?
Dobbiamo uscire dalla gabbia in cui ci ha chiuso la cultura occidentale e, con essa, la visione illuminista, per aprirci ad una prospettiva di maggiore profondità che non sia quella arida e pericolosissima del colonialismo capitalistico che divora tutto e, negli ultimi tempi, sta divorando se stesso.
Bisogna smetterla di pensare alla politica dei fondi di sostegno e agli interventi finanziari come motore del cambiamento; è tutto il contrario.
Bisogna lavorare su nuove regole, su nuovi principi, su un nuovo modo di fare politica, talmente semplice e “antico come le montagne” perché contenuto nei codici della Natura.

Guido Bissanti




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