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Una visione diversa per proteggere la biodiversità

Una visione diversa per proteggere la biodiversità

Per affrontare concretamente il difficile ruolo che la storia ha consegnato agli uomini di questo tempo è necessario che gli stessi cambino i loro atteggiamenti, mettendo al centro il loro legame indissolubile con la natura, senza il quale la storia rischia di consegnarci un pianeta invivibile ed inospitale, sia per l’attuale generazione che, ancor più, per le future.
Si tratta di una considerazione forte ma suffragata anche da dati inequivocabili, basti pensare che gli sforzi degli ultimi 10 anni contro la perdita di biodiversità sono andati a vuoto: questo significa che per poter risolvere l’equazione ecologica dobbiamo cambiare prospettiva.
Tra i tanti dati che evidenziamo, per esempio quello della deforestazione che ha visto negli ultimi 10 anni una perdita di 25 milioni di ettari ricoperti da alberi su tutto il Pianeta. Ci troviamo quindi oggi ad affrontare un problema ben più grave di dieci anni or sono senza però una reale strategia.
Tornando indietro al 2010 ricordiamo che in quell’anno 190 Stati membri delle Nazioni Unite, riuniti nella prefettura di Aichi, in Giappone, stabilirono 20 obiettivi strategici per contrastare la perdita della biodiversità. Questo piano d’azione sanciva, tra gli altri, l’impegno di salvaguardare gli ecosistemi più a rischio come le barriere coralline, a ridurre la pressione sugli habitat naturali, a promuovere una gestione sostenibile delle terre e delle riserve ittiche.
Nel 2020, il 14 settembre, quindi a 10 anni esatti di distanza, le Nazioni Unite hanno annunciato che nessuno di quei 20 obiettivi è stato raggiunto, decretando per il secondo decennio consecutivo (ricordiamo che la prima Convenzione sulla diversità biologica è del 1992) il fallimento della nostra specie nella tutela di tutte le altre.
Si tratta di una constatazione che non lascia spazio ad alcun dubbio: il modo di fare politica economica e di pianificazione non è assolutamente sincrono con le esigenze dell’ecosistema e, quindi, di tutte le specie che abitano il Pianeta.
Siamo quindi giunti ad un bivio sostanziale. Infatti mentre i delegati delle varie nazioni sono al lavoro per negoziare obiettivi globali che saranno adottati dal 2021, un’analisi pubblicata sulla rivista Science (rivista scientifica pubblicata dall’American Association for the Advancement of Science) e firmata da 40 ricercatori, evidenzia alcuni punti importanti di cui il nuovo piano dovrà tenere conto.
In sintesi bisognerà operare con un approccio totalmente diverso che preveda i seguenti obiettivi:
– Puntare in alto;
– Diverso concetto di biodiversità;
– Un attenzione particolare ai meccanismi compensativi;
– Visione d’insieme.
Per quanto riguarda il primo punto, cioè: Puntare in Alto, per poter avere risultati concreti, da qui al 2050, servono obiettivi ambiziosi, audaci, visionari. Ciò equivale a dire che solo progettando scenari ambiziosi potremmo avere una possibilità di recuperare la biodiversità e non soltanto di rallentare o arrestare le perdite attuali. Senza questo approccio le future generazioni, ammesso che il Pianeta sia ancora ospitale, vivranno quasi certamente in un mondo con sempre meno biodiversità. Per questo motivo tutti, dalle Amministrazioni più piccole, alle grandi Politiche Internazionali, dovranno porsi obiettivi visionari ed attuabili a breve termine. Basti pensare che sulla tutela della biodiversità si basa la futura sicurezza alimentare e la diminuzione dell’incremento esponenziale delle spese sanitarie, divenute oggi, pandemie a parte, insostenibili.

Nel merito del secondo punto, e cioè sul diverso concetto di biodiversità va chiarito, se mai ce ne fosse bisogno, che la Biodiversità non riguarda solo i Panda o gli Orsi Polari, per fare alcuni esempi, ma l’insieme completo di organismi che vivono in ecosistemi complessi e interconnessi con un’alta diversità genetica. I nuovi obiettivi dovranno abbracciare la complessità della natura e tutelare la biodiversità in ogni sua sfumatura. Ogni azione prospettata, come al solito, dalla più puntuale alla più vasta dovrà essere sincrona con le logiche ecologiche. Questo anche perché si dovrà necessariamente guardare al contributo che sistemi ricchi di biodiversità forniscono alla nostra sopravvivenza: senza biodiversità è messa in crisi la complessa macchina termodinamica che consente la vita di tutti, uomini compresi. Purtroppo l’agrobiodiversità è minacciata da colture e varietà a più alta resa, piantate su monocolture su ampie porzioni di terra. È un’importante minaccia alla biodiversità, che si accompagna all’espansione delle aree coltivate a scapito di quelle naturali. Per questo, anche in campo alimentare, bisogna cambiare rotta puntando su più specie, senza legare il nostro destino a poche colture tutte uguali; solo in questa ottica possiamo costruire un sistema alimentare che regga ai cambiamenti e alle malattie, e che possa garantire cibo e salute a una popolazione in crescita.
Nel merito del terzo punto, e cioè quello di porre un’attenzione particolare ai meccanismi compensativi, c’è oramai una forte presa di posizione da parte degli scienziati che chiedono che nei nuovi obiettivi non si ricorra a iniziative basate sul concetto di “nessuna perdita netta”, che permettano cioè la distruzione o il deterioramento di un ecosistema a patto che ci si impegni a ripristinare o conservare un’area di pari superficie altrove.
Si tratta di un approccio totalmente nuovo che dirada le nebbie dell’inganno. Infatti solo se si compensa con un ecosistema simile si può pensare a strategie ragionevoli, ma se lo si fa con un’area più povera o semplicemente con ecosistemi diversi, per esempio rimpiazzando un’antica foresta con una piantagione appena avviata, allora questa strategia può essere deleteria ed è tutt’altro che compensativa; in questo senso bisogna riscrivere tutte le procedure alla base della VIA e della VAS. Infatti va posto l’accento non solo sul concetto di “nessuna perdita netta” nelle aree totali, ma anche nell’integrità e nel funzionamento degli ecosistemi. Infatti, come esempio, una foresta che non è mai stata tagliata è un ecosistema molto diverso da un’area verde vuota in una città. In definitiva deve vigere il criterio che meglio di “nessuna perdita netta” sarebbe “nessuna perdita e basta”; e non è un passaggio di poco conto. Basti pensare che le politiche e gli interventi dell’uomo sul territorio hanno causato, solo negli ultimi 50 anni, la diminuzione di due terzi delle popolazioni degli animali selvatici e che la deforestazione dell’Amazzonia, per portare un altro esempio, sia un effetto legato anche alle esigenze “commerciali” di una Europa tutt’altro che sostenibile.
Il quarto punto, cioè quello della visione d’insieme (che è poi la strategia di Agenda 2030) vede gli scienziati concordi nel ritenere che sia opportuno che ogni obiettivo sia pensato col criterio della mutualità, in modo che il progresso di uno contribuisca al progresso degli altri, minimizzando i compromessi tra un’area di intervento e l’altra. Soltanto così sarà possibile avanzare simultaneamente e non per singoli traguardi isolati.
L’unica constatazione che, oggi, può darci una nuova speranza è comunque quella che la percezione della biodiversità tra i non addetti ai lavori è cambiata drasticamente in questi anni ed è, quindi, un buon punto da cui partire.
Negli anni trascorsi, infatti, la biodiversità era un concetto arcano, qualcosa che capivano solo persone (considerate strane e, per lo meno, visionarie) come i naturalisti, gli ambientalisti e gli ecologi di professione. Da qualche anno a questa parte, per fortuna, la biodiversità è stata inclusa in un contesto fortemente utilitaristico, come un fornitore di servizi, una riserva da sfruttare e, solo più recentemente, si è sviluppato un più ampio riconoscimento dei nostri inestricabili e reciproci legami con essa.
Per passare adesso dalle considerazioni all’azione bisogna forse fermarsi un attimo (ma non troppo) per fare un respiro profondo e consentire al nuovo ossigeno incamerato di cambiare il nostro approccio. La pandemia da COVID-19 è forse la pausa di riflessione che la storia, pur con le sue morti e tragedie, ci ha portato.
Sappiamo adesso, più di prima, che non possiamo parlare più la stessa lingua che abbiamo blaterato nell’ultimo secolo.

Guido Bissanti




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